15 ottobre 1967
Ci sono persone che, consapevolmente o no, lasciano segni indelebili del loro passaggio, anche se breve, su questa Terra. A Torino quest'uomo non è stato molto, ci ha pensato il destino a portarselo via ma la città ha vissuto con lui gli anni del cambiamento generazionale, la rivoluzione degli hippie, dei figli dei fiori, dell'Arte, della Cultura, dell'eccentricità e della stravaganza. La Moda cambiava e lui, Gigi, calciatore estroso, splendido nel movimento e nel dribbling, era anche di più, un ragazzo carico di forza e capacità comunicativa. Era controcorrente, viveva con una donna sposata, girava su una vecchia Balilla e ogni tanto si portava una gallina al guinzaglio... Torino deve molto a lui. Non dimentichiamolo anche se sono passati, mamma mia, 52 anni. Per questo ho voluto che sulla copertina del mio libro ci fosse lui.
Ecco, la sera del 15 ottobre 1967, attraversando Corso Re Umberto, un ragazzo di 24 anni, che giocava nel Toro e avrebbe avuto un futuro in Nazionale, veniva investito da un'auto che lo faceva volare nella carreggiata opposta, proprio mentre un'altra arrivava veloce e lo travolgeva senza pietà. Così moriva Luigi, detto Gigi, Meroni. Nato il 24 febbraio del 1943, aveva avuto una carriera esaltante e un grande futuro si preparava ad accoglierlo. Como, Genoa, per arrivare a Torino nel '64, alla corte del Presidente Pianelli, tifosissimo e abile imprenditore, con il vizio per il bel calcio e i Campioni. Allora l'allenatore era il Paron Rocco e con lui il ragazzo divenne da Nazionale. Giocò anche la seconda partita dei tragici mondiali del 1966 ma con Fabbri proprio non andava d'accordo. Finiti i mondiali, Rocco andò via e al Toro arrivò proprio Fabbri, il Presidente aveva il suo daffare con le lotte tra i due. Meroni non segnava molto ma quando lo faceva era un incanto, un colpo da maestro. Magrissimo, filiforme, con i calzettoni sempre giù, per far vedere all'arbitro meglio i falli, scattava sulla fascia destra come una "farfalla", da qui il suo soprannome, gli amici e i compagni però lo chiamavano "Calimero" come il famoso personaggio dei Caroselli. Lui non era personaggio solo in campo. Era pittore, stilista di moda, sua madre era sarta e aveva una propensione innata per l'Arte. Era eccentrico, estroverso, pieno della voglia di vivere e di esprimersi tipica di quella generazione di giovani che non venivano capiti dai matusa. Capelli lunghi a caschetto, baffetto da sparviero, occhioni da ammaliatore, per le sue qualità umane e le sue eccentricità modaiole divenne presto l'idolo dei giovani. Amava farsi riprendere e intervistare dai giornalisti e procurava scandalo con la sua relazione apertissima e resa sempre più pubblica con una donna genovese sposata, che viveva con lui nella soffitta bohemienne di Piazza Vittorio. Quella sera, finita la partita, non andò a cena con i compagni di squadra, con Poletti, il terzino destro, volle andare verso l'appartamento in cui era appena andato ad abitare, proprio in Corso Re Umberto. Le ultime luci del giorno, le prime ombre della sera gli furono fatali. Il volo della farfalla granata si fermò lì, in mezzo al corso. La notizia circolò subito in città ma io la ascoltai al mattino, al giornale radio prima di andare a scuola. Piansi, come piango adesso. Per la rabbia, il dolore, la tristezza e divenni consapevole della lotta dei vinti contro i vincitori, della sfortuna che perseguita i giusti, forse i grandi, e dimentica i deboli, gli ignavi. Essere tifoso del Toro, purtroppo, o per fortuna, è anche questo. Capire, e sapere sempre da quale parte stare. Se non sapete chi erano i Beatles ora conoscete un beat italiano di cui pochi parlano ma che ha lasciato un segno, netto, nella storia della città e in quella, meravigliosa e un poco dannata, del Toro.
Claudio Calzoni
Ecco, la sera del 15 ottobre 1967, attraversando Corso Re Umberto, un ragazzo di 24 anni, che giocava nel Toro e avrebbe avuto un futuro in Nazionale, veniva investito da un'auto che lo faceva volare nella carreggiata opposta, proprio mentre un'altra arrivava veloce e lo travolgeva senza pietà. Così moriva Luigi, detto Gigi, Meroni. Nato il 24 febbraio del 1943, aveva avuto una carriera esaltante e un grande futuro si preparava ad accoglierlo. Como, Genoa, per arrivare a Torino nel '64, alla corte del Presidente Pianelli, tifosissimo e abile imprenditore, con il vizio per il bel calcio e i Campioni. Allora l'allenatore era il Paron Rocco e con lui il ragazzo divenne da Nazionale. Giocò anche la seconda partita dei tragici mondiali del 1966 ma con Fabbri proprio non andava d'accordo. Finiti i mondiali, Rocco andò via e al Toro arrivò proprio Fabbri, il Presidente aveva il suo daffare con le lotte tra i due. Meroni non segnava molto ma quando lo faceva era un incanto, un colpo da maestro. Magrissimo, filiforme, con i calzettoni sempre giù, per far vedere all'arbitro meglio i falli, scattava sulla fascia destra come una "farfalla", da qui il suo soprannome, gli amici e i compagni però lo chiamavano "Calimero" come il famoso personaggio dei Caroselli. Lui non era personaggio solo in campo. Era pittore, stilista di moda, sua madre era sarta e aveva una propensione innata per l'Arte. Era eccentrico, estroverso, pieno della voglia di vivere e di esprimersi tipica di quella generazione di giovani che non venivano capiti dai matusa. Capelli lunghi a caschetto, baffetto da sparviero, occhioni da ammaliatore, per le sue qualità umane e le sue eccentricità modaiole divenne presto l'idolo dei giovani. Amava farsi riprendere e intervistare dai giornalisti e procurava scandalo con la sua relazione apertissima e resa sempre più pubblica con una donna genovese sposata, che viveva con lui nella soffitta bohemienne di Piazza Vittorio. Quella sera, finita la partita, non andò a cena con i compagni di squadra, con Poletti, il terzino destro, volle andare verso l'appartamento in cui era appena andato ad abitare, proprio in Corso Re Umberto. Le ultime luci del giorno, le prime ombre della sera gli furono fatali. Il volo della farfalla granata si fermò lì, in mezzo al corso. La notizia circolò subito in città ma io la ascoltai al mattino, al giornale radio prima di andare a scuola. Piansi, come piango adesso. Per la rabbia, il dolore, la tristezza e divenni consapevole della lotta dei vinti contro i vincitori, della sfortuna che perseguita i giusti, forse i grandi, e dimentica i deboli, gli ignavi. Essere tifoso del Toro, purtroppo, o per fortuna, è anche questo. Capire, e sapere sempre da quale parte stare. Se non sapete chi erano i Beatles ora conoscete un beat italiano di cui pochi parlano ma che ha lasciato un segno, netto, nella storia della città e in quella, meravigliosa e un poco dannata, del Toro.
Claudio Calzoni