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IL DISCOBOLO.
Terza puntata.
A PASSION PLAY
​Jethro Tull 1973

Ancora un piccolo viaggio indietro nel tempo a ricercare nella memoria le emozioni che tutta una generazione di ragazzi ha provato nell’ascolto della musica di tanti anni fa, quando i suoni delineavano la strada da intraprendere, i cieli ed i paesaggi da immaginare, i mondi terreni ed alieni da visitare. Tutto nasceva e si sprigionava da un delicato e stiloso oggetto di plastica nera, contenuto in copertine di cartone dai colori vivaci illustrate, a volte, con le facce attonite di giovani artisti e musicisti e, più spesso, da immagini evocative o stranissime, frutto della fantasia e dell’abilità comunicativa di pittori o art-designer sempre più bravi ed allucinati.
Da quell’oggetto uscivano suoni e parole che diventavano, ai sensi degli ascoltatori, pura illuminazione, musica e ispirazione, poesia e modo di vivere.
Una delle più grandi soddisfazioni, tra amici, era quella di fare conoscere al gruppo nuovi artisti, nuove emozioni, nuovi idoli da seguire. Frequentando le case degli amici, allora più aperte ed accoglienti di quelle di oggi, si scopriva ogni giorno un’atmosfera nuova, un gruppo rock da seguire, un nuovo modo di sentire le note. Poi si partiva in gruppo verso i negozi di dischi del centro, mica sempre per comprare. La più bella delle attività era sfogliare quegli album di cartone, analizzarne le copertine, leggere formazioni, titoli, introduzioni. Sapevamo, sapevo, qualcosa di inglese, ma i titoli proprio non si riuscivano a capire, e con più erano strani, con più erano complesse le illustrazioni, con più il prodotto diventava interessante. La musica, nascosta tra i solchi della plastica, doveva essere una sorpresa continua, una rivelazione.
Un amico, dopo avermi sentito parlare dei Delirium e di quel ragazzo col flauto, strumento così strano nel mondo del rock, porta la compagnia a casa sua di fronte a un immenso e nuovissimo (presumo costosissimo) impianto HIFI. Stanno scorrendo gli ultimi giorni del settembre 1973. Da una copertina doppia, accuratamente illustrata, estrae e mette sul piatto un disco. <Se ti piace il flauto devi sentire questo gruppo. Si chiamano Jethro Tull>. Lo so, li ho già sentiti nominare, ma non mi fido. Per me Ivano Fossati è immenso. Nessuno può spodestarlo dal trono. Tre note. Tre note nella stanza, tre parole, tre minuti e sono folgorato, ammaliato, incastrato. L’amico ha messo sul piatto la seconda facciata dell’album Aqualung, e nell’aria risuonano, in perfetta stereofonia, le note di My God, una delle canzoni capolavoro del gruppo inglese. Atmosfere gotiche, religiose, medioevali con la voce rauca e nasale del leader, Ian Anderson che, poco prima del terzo minuto della canzone, impugna il flauto e sbaraglia tutti i concetti della mia idea di virtuosismo musicale. Sono affascinato da tutto, dal ritmo, dall’Inghilterra, dal medioevo, dagli sputi e dai grugniti, da quei suoni cattivi, da quel barbone in copertina, dalla chiesa dipinta e da quel verso “e l’uomo creò Dio” che mi rimbalza in testa da allora.
Il giorno dopo corro, naturalmente a comprare un disco. Voglio ascoltare qualcosa di nuovo, l’ultima composizione del gruppo, l’ultima opera.
Si intitola “A Passion Play” ed ha una copertina tremenda. C’è una ballerina morta, in primo piano, che perde sangue dalla bocca. È stesa sul palco di un teatro, di cui, in lontananza si vedono i loggioni. Vado a casa. Dall’interno del disco, all’apertura del cellophane, esce un libretto teatrale corredato da foto stranissime, che illustrano i componenti della band in abiti sconcertati e con nomi di fantasia. Bene. Tutto a posto. La follia è servita. Il piatto (la mia vecchia fonovaligia non è certo stereofonica) inizia a girare, la musica (è musica?) comincia a roteare nella stanza, con il ritmo di un cuore battente. Eccolo…il vero mio primo disco dei Tull, il più criticato e destabilizzante album della loro discografia, il capolavoro assoluto (a suo dire) di Ian Anderson, il poeta, il flautista, il barbone che ha difficoltà a respirare, il dissacratore, l’ottuso come un mattone, il pifferaio magico, il Vescovo dei Pazzi. Per molto tempo ho pensato che il titolo A Passion Play significasse “Il dramma della passione” o qualcosa di simile.
In realtà è tutto molto più semplice, o forse più complicato: il Passion Play è una antica forma di spettacolo popolare, la rappresentazione della Passione di Cristo legata alla tradizione folclorica, tipica del medioevo e diffusa in tutta Europa, dall’Italia all’Inghilterra.
Bene.
Ian allora ci vuole raccontare un viaggio nell’aldilà?
Certo. Visto che, assecondando il testo, ci troviamo subito in un posto dove, al posto del traffico di Fulham Road, c’è silenzio, troppo silenzio, ed i parenti, sulla collina, intonano melodie funebri.
Tempi ritmici dispari, spesso dissonanti, non aiutano certo a seguire un testo incomprensibile (slang alternato a vocaboli di inglese medioevale) che però porta ad una strada già segnata nell’arte. I cantati sono lirici e disperati, il suono è particolare, fatto da strumenti incredibili, chitarre che sembrano organi, organi che hanno il suono da tromba e persino Dio (Ian Anderson) non suona più troppo flauto, si cimenta con il sax soprano e con una chitarra acustica sempre più struggente.
Ricordo perfettamente che un caro amico quindicenne, fisarmonicista in una filarmonica, un paio d’anni dopo l’uscita del disco, alla lettura dello spartito si stupì favorevolmente <Questo è jazz, no è più avanti del jazz, è un opera lirica condita dal tutto…>
Potrei andare avanti per ore, citare versi, frasi persino profetiche (parlare di Banca della Memoria nel 73 era quantomeno innovativo), molti riferimenti irriverenti e attimi di vero spettacolo con il Diavolo che chiede il Bis alla compagnia.
Un viaggio nell’aldilà, dicevo, una Divina Commedia moderna ed evocativa, che gioca sul teatro, sull’assurdo, e giocano tutti i componenti del gruppo, inseguendosi gioiosi nel ballo, nel rito primitivo della rinascita, fuori dall’ufficio di un Dio indaffarato e di Lucifero raggelante.
Io a quattordici anni capivo le parole del testo ma non certo il loro significato, il contesto del discorso, e molti continuano a non capirlo e venderebbero l'anima al diavolo per una spiegazione razionale del dramma.
Sono certo che la lettura dell’opera e l’ascolto di quel lungo, unico e interminabile brano, che diventa qualche volta canzone e spesso sinfonia, mi abbia formato poeticamente e stilisticamente, mi abbia acceso la voglia di poesia e intraprendenza artistica. Passion Play mi ha aperto le porte della fantasia e dell'arte, sicuramente.

A metà disco, poi, sparsa tra la prima e la seconda faccia appare la fiaba “La storia della Lepre che ha perso i suoi occhiali” una sorta di racconto per bambini, i cui personaggi sono pittoreschi animali,  recitato e musicato sulla falsariga di “Pierino e il Lupo”. Di questi cinque minuti di pura follia esiste, ritrovato come molte altre cose nell’archivio dei ricordi, una versione video che ogni amante del balletto, del teatro e dell’assurdo dovrebbe secondo me guardare (allora, nel 73, non ne sapevo nulla) per farsi un’idea della potenza creativa ed immaginifica, della libertà di ispirazione che ha generato il “prog” nella sua forma più teatrale e visionaria.
Se questa digressione vi è interessata andate ad ascoltarvi, senza pregiudizi, il disco, l’originale del 73 e se vi piace lo trovate anche arricchito in diverse versioni rimixate e manipolate con nastri ritrovati.
L’anno delle meraviglie, l’anno di “Dark side of the moon”, di “Selling England” e di “Tales from topographic oceans” regalava al mondo anche questa perla, trattata male dai critici inglesi perché troppo avanti, perché, questa volta, Ian non strizzava l'occhio sorridendo, ma si esponeva personalmente, forse troppo.
Ora sta a voi giudicarla.
Io rimango assorto, ancora, ad ascoltare il silenzio che resta nel teatro quando, senza nemmeno volerlo, mi rendo conto che lo spettacolo è finito.

Alessandro Zolcani

Ps Ho accennato all’opera lirica, alla musica classica. Nella produzione artistica di Ian e del gruppo ci sono tantissimi riferimenti a Bach, Beethoven e Mozart e lui, da flautista è famosissimo per le interpretazioni dei classici, come la Bourrée. Ma in Passion Play non ci sono violini eppure si sente, nitido, il profumo dell’innovazione stilistica, del lamento musicale, del contrasto e del contrappunto. Non è più rock, o pop. Infatti, il disco venne stroncato, pur arrivando in vetta alle classifiche di vendita. Strana storia che, fortunatamente, non ha inciso sul morale dell’artista che, ancor oggi, è in tour con il gruppo.
​Morirà sul palco, come nel suo dramma. Speriamo il più tardi possibile, ho già acquistato i biglietti di un paio dei suoi concerti. 

Caludio Calzoni



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