La schedina vincente Intervista a Marco Gollini.Un nuovo e bellissimo progetto letterario, con valenze sportive e umanitarie, sta per vedere la luce sotto l'egida della Casa Editrice Giangiacomo Della Porta di Moncalieri. Tredici scrittori, amanti dello sport, del calcio e della sua valenza sociale e storica raccontano, nel libro “La schedina vincente” i loro ricordi e le emozioni legate ad una particolare partita, quella che, in qualche modo, ha segnato la loro vita.
Conosciamoci meglio chi è Marco Gollini? Ci disegni il suo autoritratto. Marco Gollini è ormai un uomo adulto ma porta sempre con sé Pizzole e Golla, rispettivamente il bambino e l’adolescente che è stato un tempo. Anche grazie al loro contributo Marco tende ad affrontare la vita come se fosse Zorro, eroe mascherato della sua infanzia. Proprio come lui vorrebbe contrastare le ingiustizie, dedicarsi agli altri e schierarsi in difesa dei più deboli. Qualche volta ci riesce, mentre altre sbatte contro il muro delle imprese in cui si lancia. Marco oggi vive con piacere e intensità il suo essere padre, figlio (ma non Spirito Santo!) e compagno. É un amico affidabile ma solo di poche persone attentamente selezionate. Sa attivarsi e adattarsi in caso di necessità ricoprendo vari ruoli: giardiniere, colf, artigiano, cuoco e qualsiasi altra mansione sia richiesta. Nei ritagli di tempo riesce persino a lavorare. Dopo cinque anni di gioventù offerti alla fonderia paterna ha deciso di lanciarsi in ciò che riteneva più consono alle sue caratteristiche e alle sue passioni. Così, nella veste di educatore professionale, si prende cura dei minori da ventotto anni, venti dei quali prestando servizio per il Comune di Bologna. Tuttavia, essere Zorro è un mestieraccio e spesso è opportuno ritornare Diego della Vega per recuperare energia e per prendersi cura (anche) di sé. Rinfoderata la spada, Marco si getta a capofitto nella natura: ama pescare, dipingere, giocare (possibilmente con una palla) e viaggiare in camper verso mete rilassanti. Il tutto in solitaria o in gradevole compagnia. Da diversi anni, forse pensando a una pensione tanto incerta e lontana quanto misera, ha preso la meravigliosa abitudine di ritagliarsi più tempo per la lettura e soprattutto per la scrittura. Quest’ultima è una vecchia passione mai sviluppata del tutto, ed è diventata una sorta di terapia del benessere. Quando può scrivere favole e racconti, passati o inventati, si immerge e si isola in un mondo magico. Magari da quell’universo parallelo non nascono best seller ma a lui importa ben poco. Ciò che conta è poter lavorare a sei mani con Pizzole e Golla, sempre pronti a ricordargli emozioni e aneddoti lontani da integrare con quelli del suo presente. Ora che ha capito che gli anni passano veloci Marco desidera ridefinire le sue priorità. Il tempo restante andrà vissuto e assaporato a pieno, riscrivendo a piacimento lo sviluppo e il finale della storia. Quello sì che sarà un grande successo: parola di Zorro! Z Qual è, attualmente la definizione di sé stesso che preferisce? Mi piace quando gli altri mi definiscono una persona onesta e leale perché sintetizzano il risultato di una vita di impegno e di sacrifici. I trucchetti, le scorciatoie e le falsità non hanno mai fatto per me. Per quanto mi riguarda, dopo aver vissuto tanti anni nei panni di Zorro, in questa fase preferisco quelli di Diego della Vega per concedermi un’esistenza tranquilla investendo su ciò che più mi appassiona e mi fa stare bene. Poi, si sa, la vita ci trasforma ogni giorno e chissà quali panni mi troverò a indossare domani. Entriamo in tema calcistico. Quale è la sua squadra del cuore? BOLOGNA da sempre e per sempre anche se non è più lo squadrone che tremare il mondo… faceva. Nel corso degli anni ho smesso di seguirlo con assiduità un po’ per curare altri interessi e, forse, anche per difendermi dalla sofferenza che spesso mi ha inferto. Del resto, avvicinarmi ad altre compagini più vincenti non è concepibile e non solo per mancanza di alternative valide. Ne sia la dimostrazione la squadra di pallacanestro per cui tifo. Vivendo in una città conosciuta anche come Basket City avrei potuto trovare proprio sotto le Due Torri una blasonata sostituta per la mia amatissima Fortitudo. Però, diventare virtussino sarebbe come tradire il mio approccio alla vita e dare un colpo mortale alla mia coscienza, non solo sportiva. Ormai ho fatto pace con l’arte di schierarmi con chi è più fragile, più povero, più proletario, più svantaggiato, più sfigato e quindi… più perdente. Forse, sarebbe corretto affermare che ho scelto, anche nello sport, di contrappormi a chi detiene il potere e lo usa contro gli altri pur di vincere. Perciò, se nel basket il ruolo di (pre)potente è incarnato dalla Virtus, nel calcio lo identifico nella Juventus con il relativo e discutibile “stile”. Non so se si tratti di un’idiosincrasia verso il bianconero o altro ma, nel dubbio, preferisco perdere onestamente in attesa di godere dei piccoli, rari, significativi successi. Le mie scelte sportive le ho fatte quando avevo poco più di quattro anni e non le cambio certo ora. In fondo, come gridano allo stadio: Il Bologna è una fede!” e tale per me resterà fino alla fine. Quale è stato il suo stato d'animo quando il torinese Marco Piano, il capitano di questa nuova squadra nata per motivi letterari e benefici, le ha parlato di questo progetto? Come ha reagito alla convocazione in questa speciale nazionale di scrittori? Quali sono i motivi che fanno di Bologna-Perugia la sua personalissima “partita della vita”? È stato un onore e una gioia immediata, innanzitutto perché considero “Capitan” Marco Piano un amico anche se ci conosciamo da poco. Sperando che il sentimento sia reciproco credo che, nel nostro caso, sia stata più importante la qualità del tempo condiviso anziché la quantità, oltre che la sensazione provata a “pelle” al primo incontro. E anche se la sua pelle è coperta dalla maglia juventina questa è la riprova che la fede sportiva non deve e non può essere messa davanti ai valori umani di cui ognuno è portatore. Questi valori li ho percepiti quando ho conosciuto Marco presentatomi dall’amico Stefano “Nadalo” Nadalini alla famosa e gucciniana osteria da Vito a Bologna. Scambiandoci i rispettivi libri e piacevoli racconti calcistici ho sentito la stessa alchimia che si crea quando incontro gli amici di una vita. Leggere il loro libro mi ha fornito la conferma. Perciò, stimando l’uomo e lo scrittore, ho provato dapprima un moto di orgoglio che, una volta chiusa la telefonata, si è trasformato in un mare… moto che ha sepolto con violente ondate di panico il precedente entusiasmo. Il cervello si è preso ventiquattro ore di “permesso non autorizzato” lasciandomi in compagnia di quell’assurda sensazione. Dopo di che, placate le insicurezze di Pizzole e Golla mediante garanzie dettate dall’esperienza del Marco adulto, sono riuscito ad ottenere proprio da loro il contributo vincente. Ho sentito che dovevo affidarmi ai due “giovani Gollini” in quanto depositari dei ricordi più dolci anche rispetto al calcio. Infatti, come detto, crescendo mi sono via via allontanato dal mondo del pallone in cui, tra l’altro, ho giocato a livello dilettantistico per oltre trent’anni. Per me il calcio è rimasto quello in bianco e nero (deroga concessa all’abbinamento cromatico solo per l’occasione) simboleggiato dalla palla in cuoio a pentagoni-esagoni e amato sin dall’epoca in cui anche la televisione aveva la stessa tinta. Così Pizzole ha lanciato sulla fascia Golla che si è ricordato del periodo più bello del Bologna visto da vicino, sia allo stadio che al campo di allenamento. Golla, a quel punto, ha fatto un assist perfetto per Marco che ha dovuto solo “metterla dentro” al pc. Mi sono tuffato nel passato e ho scritto febbrilmente per giorni tagliando, aggiungendo, modificando alla consueta ricerca di una perfezione che non esiste. È stato emozionante praticare un perfetto gioco di squadra, proprio come quello che siamo riusciti a mettere in campo con gli altri dodici compagni di scrittura. L’incontro Bologna-Perugia del campionato 1980-81 è stato il simbolo di un periodo sportivo meraviglioso per il sottoscritto, ignaro del triste destino che attendeva, poco più in là, la squadra del cuore. Una pagina gloriosa del libro della mia memoria. Ciò è stato possibile nonostante quei tredici anni di età vissuti tra ormoni, passioni, tormenti in un contesto storico cittadino e nazionale altrettanto tormentato e incerto. “Ultimo ma non ultimo”, come ho scritto nel capitolo, Giuliano Fiorini detto Fiore. Lui è l’idolo indiscusso di quel ragazzino che sognava di vivere calciando in rete il pallone, ignorando che avrebbe continuato a farlo anche nei sonni agitati di cinquantenne. Visto che la Gazzetta è l’organo di informazione ufficiale delle Edizioni Hogwords, ed ha lettori molto interessati al rapporto che si instaura tra i personaggi intervistati e le loro opere, entriamo a gamba tesa nella sua storia personale: ha mai pubblicato, a suo nome o in collaborazione con altri autori, dei libri? Oltre a elencarci titoli e argomenti trattati ci può dire quali sono state le sue sensazioni a vedere stampate le sue parole, le sue idee, sulla carta? Dopo aver scritto per doveri scolastici, per diletto e per i figli, a cui ho dedicato filastrocche in rima e favole, ho avuto la fortuna di incontrare l’editore Walter Girolamo Codato di Edizioni Arte e Crescita disposto a pubblicare “Fiore e Pio”. Si tratta di una fiaba che parla del rapporto tra due gattini che interagiscono con altri animali giungendo a scoprire il valore dell’amicizia e della diversità. In ambito professionale ho scritto diversi pezzi per pubblicazioni del settore educativo ma i due più importanti sono: • Ragazzi divisi. Senti ti devo dire... per “MetaFamiglie” del Comune di Bologna. • Tra virtuale e reale: itinerari attraverso le adolescenze facente parte del libro I centri socioeducativi del Comune di Bologna edito da Carocci pressonline. Poi, dopo una gestazione lunghissima e un parto indotto, è “nato” il romanzo autobiografico “Con il 9 sulla schiena” che ho pubblicato autonomamente nel dicembre 2018. Se “Fiore e Pio” è stato il frutto di una collaborazione con l’editore il romanzo l’ho sentito tutto mio perché racconto con autoironia un pezzo della mia infanzia ripercorrendo con gli occhi di un bambino la vita negli anni Settanta. Mettendomi a nudo ho coniugato amori, giochi, tradizioni, abitudini del periodo con la grande passione per il calcio e, in particolare, per il Bologna guidato dal mio primo vero mito: Beppe Savoldi. Tutte le mie opere sono motivo di orgoglio e soddisfazione ma “Con il 9 sulla schiena” ha un sapore diverso, più intenso. È un libro importante perché elaborato in un periodo difficile della mia vita. Mi riconosco la capacità di aver saputo reagire divertendomi moltissimo nella scrittura, rivivendo in maniera ironica anche i “drammi” infantili e sportivi. Tra le tante, ricordo l’emozione provata nel tenere in mano la prima copia. In copertina c’è il piccolo Pizzole con la maglia rossoblù numero 9, impersonato in realtà da mio figlio Daniele, che si specchia nell’immagine di Savoldi. Una gioia pari a quella provata a Bergamo quando sono andato a conoscere Beppe Gol per chiedergli di scrivere la prefazione. Persino se mi avesse risposto “no” sarebbe stato comunque un giorno indimenticabile: 18 ottobre 2017. Lì ho capito che, anche in età adulta, i sogni di bambino si possono realizzare, proprio come i gol. I suoi cari come si sentono ad avere uno scrittore, un giornalista, un personaggio che è o che diventerà famoso che gira per casa? Non sono famoso né mai lo diventerò e se, incomprensibilmente, dovesse accadere, quel giorno sarebbe talmente lontano da trovarmi magari ancora a girare per casa, ma con deambulatore e badante al seguito. Scherzi a parte, penso che i miei familiari siano molto felici per me, a prescindere dai risultati e dalla fama. Sanno che la scrittura è ormai un bisogno primario e che una pubblicazione è sempre motivo di orgoglio e gratificazione. La mia compagna mi aiuta e mi sostiene in questo e anche i miei figli, pur non essendo accaniti lettori, sono fieri del papà. Persino mia madre, solitamente sobria se non critica nei miei confronti, oltre ad aver letto il libro per ben due volte, si è entusiasmata e meravigliata per una mia intervista televisiva. Si sente di dare qualche consiglio ai giovani che si apprestano a leggere il libro “La schedina vincente”? Ha qualche raccomandazione o invito da fare alle lettrici ed ai lettori? Nella mia esistenza non sono mai stato bravo a promuovere me stesso preferendo affidare agli altri tale compito. Questa si è rivelata quasi sempre una pessima scelta. Infatti, in un mondo di falsi fenomeni, che si autocelebrano oltre i meriti effettivi aggiungendo pure qualche gomitata a chi ha qualità maggiori, la modestia paga poco. Ho impiegato tempo ma alla fine l’ho capito anch’io. In questo caso, più che mai, non ho dubbi sul potenziale del libro e trovo che sostenerlo sia doveroso. Ai lettori di ogni genere ed età consiglierei di leggere “La schedina vincente” perché in una delle tredici partite potrebbero trovare un pezzo della loro esistenza. Il calcio è di fatto il filo conduttore del lavoro svolto e collega tutti gli autori. Il pallone che rotola è un po’ come un treno che percorre un tratto lungo quarantadue anni e che attraversa paesi, città, epoche, passioni e tanta storia italiana. Da qualsiasi metro di quella rotaia potrebbe spuntare un ricordo capace di suscitarne altri che sappiano aprire il cassetto delle emozioni di ciascun lettore. Inoltre, trovo sia meraviglioso potersi godere tredici “mini” libri, tredici storie individuali redatte con stili diversi e per questo ricche di un valore inestimabile che rende ogni capitolo speciale per intimità, personalità e unicità. Sono particolarmente grato, felice e orgoglioso di far parte di questo gruppo di scrittori che hanno raccontato l’amore per un calcio e per un tempo ormai troppo lontani. Senza retorica o piaggeria posso affermare che i miei compagni di squadra sono tutti davvero molto bravi. Leggere i loro racconti è stato emozionante così come è stato stimolante lavorare in team mettendoci il massimo impegno per cercare di avvicinarmi al loro livello. Ci parli del futuro. Sta scrivendo, pensando o organizzando cose nuove? Si, come detto, la passione per la scrittura mi ha preso la mano, anzi entrambe, ma in cambio non mi ha dato tutto il tempo che vorrei per batterle sui tasti del computer. Ho nel cassetto vecchie fiabe e filastrocche per bambini ritenute molto piacevoli da chi le ha lette. Inoltre, ho un racconto finito da tempo per lettori dai dieci ai quattordici anni. È un testo che tratta la relazione di amicizia tra un adulto e un bambino che condividono gioco, sogno e fantasia in un clima di rispetto reciproco e di mantenimento dei ruoli. Da tempo ho iniziato un altro romanzo, quasi un sequel di “Con il 9 sulla schiena”, ma sto procedendo con cautela alla ricerca di uno stile differente malgrado sia anch’esso un testo autobiografico ambientato nel periodo storico successivo. Infine, ho un racconto già terminato che definirei “pazzesco”, sia per la modalità narrativa utilizzata che per il lavoro di ricerca svolto. Credo in questo progetto e sono convinto che, trovando un editore coraggioso e lungimirante, potremmo toglierci entrambi delle belle soddisfazioni. Ricordo con piacere il divertimento degli amici a cui ho letto la prima stesura che poi, negli anni, si è quadruplicata. Uno di loro mi ha detto: “Oh Marco, era dai tempi in cui mi facevo le canne che non ridevo così tanto.” Anche se le canne le ho sempre e solo usate per pescare ammetto che simili affermazioni hanno avuto comunque un effetto stupefacente, soprattutto sull’autostima. Per finire ci racconti di questo periodo tremendo del virus. Ha avuto esperienze particolari, paure, tristezze o gioie inaspettate da raccontare? Cosa rimarrà nel suo cuore dei lunghi giorni passati in quarantena? Con quali speranze e desideri l’uomo Marco si appresta al ritorno della vita normale, se mai la vita ritornerà normale? Vorrei avvalermi della facoltà di non rispondere ma ciò malgrado non mi sottrarrò. Dal dilagare della pandemia a oggi dividerei il periodo in due parti. Durante il primo lockdown ho cercato di esorcizzare la tremenda paura concentrandomi sul lavoro a distanza, su ciò che amavo fare e sui miei figli pur patendo la lontananza da chi amavo. Mi sono imposto di limitare la visione dei notiziari per non farmi condizionare dalle funeste notizie e per tenere sotto controllo l’angoscia. Ho capito che l’unica azione sensata che potevo fare, per me e per gli altri, era starmene a casa per evitare il contagio. Razionalizzando, sono stato anche in grado di apprezzare il ritmo lento in cui vivevamo e il silenzio in cui era piombato il mondo. Quella inusuale quiete, tuttavia, non alleggeriva il peso della tragedia e dei suoi numeri. Ecco un altro aspetto terribile: i numeri. Non intendo solo l’enorme quantità di decessi giornalieri ma il fatto che questi sventurati se ne siano andati tra sofferenza e solitudine, senza la dignità e la misericordia che ogni persona merita. Ognuno di loro è diventato una semplice e fredda cifra da sommare ad altre all’interno di un grafico. Non erano più soggetti portatori di una storia preziosa e di un’insostituibile unicità ma oggetti fatti in serie da archiviare in tutta fretta. Nella seconda fase, dopo un’estate trascorsa con la massima attenzione e in luoghi isolati, ho sperato “chiudessero” di nuovo il Paese, pur consapevole del danno economico che ciò avrebbe comportato. Pensavo che problemi sarebbero stati molteplici ma che l’interruzione completa dei contagi, potesse e dovesse essere la priorità assoluta. In famiglia, a differenza della prima ondata, abbiamo cominciato ad avere, con frequenza crescente, notizie di persone care che si ammalavano. Questo ci ha fatto percepire un preoccupante aumento del pericolo di contagio. Così, con figli e compagna, ci siamo chiusi nella nostra casa-fortino rinunciando a ogni contatto non necessario. Abbiamo mantenuto in presenza solo pochi rapporti professionali e di studio sempre adottando i presidi di sicurezza. Nonostante queste precauzioni, purtroppo, a febbraio ci siamo ammalati tutti per via di un tirocinio obbligatorio svolto da mia figlia in una scuola materna. Per fortuna gli altri si sono ripresi in fretta mentre io sono rimasto positivo per lunghi mesi e ancora oggi fatico a ritrovare una condizione fisica accettabile. È stata dura, molto dura. Quindi cosa posso attendermi dal futuro? Per quanto mi riguarda spero solo di rimettermi completamente senza ulteriori complicazioni o nuovi contagi. Quindi cercherò di vivere aumentando i momenti di condivisione con le persone a cui tengo di più ma sempre in sicurezza. Rispetto al futuro degli uomini invece non coltivo molte speranze. Da questo dramma globale mi sarei atteso un approccio e una reazione collettiva compatta e solidale che invece è mancata. È stata la triste conferma di come l’uomo continui ad anteporre gli interessi personali ed economici ai valori fondamentali della vita, già calpestati in ambito ambientale. Oltre alla follia negazionista è scoppiata la “guerra tra poveri”, una sorta di “tutti contro tutti” causata e alimentata da logiche politiche, personalistiche e del profitto. Si è lucrato e speculato sulla salute, sulla paura e sulla fragilità della gente che fatica a reagire contro simili ingiustizie. Tutto ciò ha causato un fenomeno assai pericoloso che ha creato ulteriori divisioni e conseguenti problematiche sociali che sviluppato tensioni crescenti che rischiano di avere ripercussioni gravi sull’andamento collettivo, territoriale e globale. Ho riscontrato che l’individualismo, imperante già prima della pandemia, ha continuato a dilagare proprio anche per le scelte di chi governa che, spesso, decide seguendo logiche diverse da quelle che mirano al benessere della persona. Perciò ho accantonato la speranza di uscirne migliori, anche perché temo che la fine di questo incubo sia ancora lontana e il disagio della gente in progressivo aumento. Alla luce di questa complessa situazione planetaria diventa difficile poter incidere come singolo ma sono comunque convinto che ogni essere umano abbia il dovere di impegnarsi per migliorare almeno la situazione del proprio micromondo. Questo è il compito che ho sempre cercato di svolgere e questo è l’impegno che, ora più che mai, continuerò a garantire. Claudio Calzoni |