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La schedina vincente Intervista a Mario Camarda.

Un nuovo e bellissimo progetto letterario, con valenze sportive e umanitarie, sta per vedere la luce sotto l'egida della Casa Editrice Giangiacomo Della Porta di Moncalieri. Tredici scrittori, amanti dello sport, del calcio e della sua valenza sociale e storica raccontano, nel libro “La schedina vincente” i loro ricordi e le emozioni legate ad una particolare partita, quella che, in qualche modo, ha segnato la loro vita. 
 
Conosciamoci meglio. Chi è Mario Camarda? Ci disegni il suo autoritratto.
Ho 59 anni e faccio il medico ospedaliero a Grosseto. Sono nato a Torino ma ho vissuto molto più di metà della mia vita in Toscana dove in giovane età mi ero trasferito per gli studi universitari. Dopo un breve periodo di lavoro in Piemonte ho successivamente deciso di tornare in Toscana. Ho lavorato a lungo nell’ospedale provinciale grossetano ma da circa 5 anni ho trovato una nuova condizione professionale, spero definitiva, presso il presidio ospedaliero del distretto amiatino di Castel del Piano dove sto vivendo un ambiente più familiare e meno frenetico. Ho così riscoperto uno stile di vita più lento, godibile e a stretto contatto con il meraviglioso scenario naturale del monte Amiata. Sono molto contento di quest’ultima scelta fatta che non ha per nulla compromesso le mie soddisfazioni professionali e mi ha consentito di ritrovare un equilibrio interiore che pensavo perduto.
 
Qual è, attualmente la definizione di sé stesso che preferisce?
Vorrei sempre dare di me l’idea di un uomo coerente. Fallibile ma coerente. Il mestiere di medico mi ha insegnato che c’è sempre qualcosa da imparare e che ogni nuovo traguardo impone di alzare l’asticella delle proprie conoscenze ed esperienze. Per migliorarsi nella vita bisogna sottoporsi a continui sacrifici e fermarsi spesso a meditare sulle proprie scelte, accettando il confronto e la critica. Non sempre mi riesce ma quantomeno ci provo. 
 
Entriamo in tema calcistico. Quale è la sua squadra del cuore?
Come ho descritto nel libro “La schedina vincente” da bambino venni folgorato da Gianni Rivera e dal suo meraviglioso stile di gioco. Vederlo trattare la palla con tanta eleganza e tecnica mi lasciava a bocca aperta. Attendevo con ansia, ogni anno, l’incontro tra Juventus e Milan al Comunale di Torino cui assistevo con mio padre, tifoso bianconero, in curva Filadelfia. Digerivo senza troppa sofferenza di trovarmi nella curva di fede juventina, pur di poter vedere il mio idolo dal vivo. Anche se non mi sentivo convintamente milanista, per un certo periodo ho comunque tifato per la squadra di cui Rivera era il capitano e il fuoriclasse. Ma all’età di 9 anni entrai a far parte delle giovanili del Torino nelle quali ho giocato per 5-6 anni. Quel periodo mi ha consentito di amare quella maglia e apprezzare l’ambiente granata. Pur non essendo un vero tifoso, il Torino mi è rimasto nel cuore e penso che, più di qualsiasi altra squadra, rappresenti pienamente i miei valori sportivi: onestà, rispetto dell’avversario, sacrificio e integrità morale. Chi tifa per il Torino ha più a cuore questi valori dei risultati conseguiti dalla squadra sul campo. Poche società calcistiche trasmettono un senso di appartenenza così profondo, addirittura talora doloroso, ma sempre straordinariamente appagante.
 
Quale è stato il suo stato d'animo quando il torinese Marco Piano, il capitano di questa nuova squadra nata per motivi letterari e benefici, le ha parlato di questo progetto? Come ha reagito alla convocazione in questa speciale nazionale di scrittori? Quali sono i motivi che fanno di Italia-Germania ovest la sua personalissima “partita della vita”?
Marco è un amico fraterno di infanzia. Sono stato molto felice e orgoglioso di ricevere il suo invito a far parte di questo progetto. Penso di non averci messo più di pochi secondi nel rispondergli che accettavo con entusiasmo di far parte di questa squadra di amici scrittori. E con altrettanta immediatezza gli comunicai che la partita della mia vita non poteva che essere la semifinale del campionato del mondo del 1970 in Messico tra Italia e Germania ovest. Fu la prima grande rassegna calcistica che seguivo nella mia giovane vita e lo feci con fremente trepidazione a fianco di mio padre sul divano di casa. Le partite venivano trasmesse in televisione in diretta durante la notte e questo aspetto rendeva particolarmente emozionante l’attesa delle partite e il loro svolgimento. L’incontro della nostra nazionale contro la Germania ovest, vinto ai tempi supplementari, può essere considerato leggendario per quei trenta minuti finali, contrassegnati da continui capovolgimenti di fronte e suggellati dal goal di Gianni Rivera che ci consegnò la vittoria, considerato ancora oggi un capolavoro di tecnica e intelligenza, tanto da meritarsi l’appellativo di goal del secolo.
 
Visto che la Gazzetta è l’organo di informazione ufficiale delle Edizioni Hogwords, ed ha lettori molto interessati al rapporto che si instaura tra i personaggi intervistati e le loro opere, entriamo a gamba tesa nella sua storia personale: ha mai pubblicato, a suo nome o in collaborazione con altri autori, dei libri? Oltre a elencarci titoli e argomenti trattati ci può dire quali sono state le sue sensazioni a vedere stampate le sue parole, le sue idee, sulla carta?
Penso di aver letto molto nella vita e non solo testi e riviste scientifiche. Ho sempre amato la narrativa dell’Ottocento e la storiografia, pur non disdegnando la letteratura contemporanea. Non avevo però mai pensato concretamente di scrivere un libro. Questa è pertanto la mia prima esperienza in qualità di scrittore. Sono grato a Marco e agli altri amici di avermi offerto questa opportunità. Ho scritto la mia storia con l’entusiasmo e l’impegno di un neofita, cercando soprattutto di trasferire ai lettori le mie emozioni di bambino. Ho cercato di contestualizzare il racconto nel periodo storico di fine decennio 1960-1970 e spero di aver consegnato uno spaccato realistico di quell’epoca ormai molto lontana. I lettori della mia generazione rivivranno le suggestioni della loro giovinezza; i più giovani potranno confrontarsi con un mondo che non hanno conosciuto ma che ha segnato i decenni successivi.
 
I suoi cari come si sentono ad avere uno scrittore, un giornalista, un personaggio che è o che diventerà famoso che gira per casa?
Sorrido all’idea che qualcuno pensi davvero che possa affermarmi come scrittore. Neppure ci penso in verità. Spero di aver fatto un buon lavoro e che venga apprezzato. Questo è più che sufficiente. Amo il mio lavoro e per i prossimi 5-6 anni continuerò a dedicare le mie migliori energie fisiche e mentali ai miei pazienti. Credo che questa esperienza rimarrà una parentesi della mia vita, meravigliosa ma pur sempre una parentesi.
 
Si sente di dare qualche consiglio ai giovani che si apprestano a leggere il libro “La schedina vincente”? Ha qualche raccomandazione o invito da fare alle lettrici ed ai lettori?
Penso che il libro possa essere letto tutto d’un fiato cogliendo lo scorrere del tempo nella narrazione dei tredici capitoli. Non è necessario essere esperti di calcio o tifosi di qualche squadra per apprezzare il fluire del libro e l’ambientazione delle storie narrate. Per questi motivi mi sento di consigliare la lettura anche al pubblico femminile, generalmente un po’ meno incline al mondo del calcio. 
 

Ci parli del futuro. Sta scrivendo, pensando o organizzando cose nuove?
Ribadisco che ritengo “La schedina vincente” una parentesi della mia vita. Non ho altri progetti letterari in testa anche se non voglio escludere a priori che qualcosa ancora possa capitare in futuro.
 
 
Per finire ci racconti di questo periodo tremendo del virus. Ha avuto esperienze particolari, paure, tristezze o gioie inaspettate da raccontare? Cosa rimarrà nel suo cuore dei lunghi giorni passati in quarantena? Con quali speranze e desideri l’uomo (vostro nome) si appresta al ritorno della vita normale, se mai la vita ritornerà normale?
Da settembre scorso nel mio ospedale è stato aperto un reparto per pazienti affetti da Covid che abbiano superato la fase acuta più critica, nel quale sto tuttora lavorando. La prima fase pandemica in Toscana non è stata grave come nelle regioni del nord ma da novembre abbiamo dovuto far fronte a un prolungato periodo di sovraccarico delle strutture sanitarie. Lavorare in un reparto Covid insegna quanto sia importante la solidarietà umana, il contatto e l’empatia. La malattia e la contagiosità ad essa correlata costringono i pazienti a lunghissimi periodi di isolamento nei quali è facilissimo perdersi e precipitare nella depressione e nella paura di non farcela. Questo è valso soprattutto per i più anziani e fragili che sono stati i più colpiti dalla malattia, spesso privati dell’affetto indispensabile dei loro cari. Chi sta lavorando in questi ambienti ha messo in gioco tutta la propria sensibilità e solidarietà ben al di là del dovere professionale. Sono quindi orgoglioso di aver fatto la mia parte in questo doloroso periodo vissuto. La speranza è che presto si possa tornare ad una vita normale e che le sofferenze restituiscano un futuro migliore per le giovani generazioni, nel ricordo di chi ci ha lasciato.

Claudio Calzoni

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