IL DISCOBOLO. Prima puntata. DOLCE ACQUA Delirium 1971
Nel panorama delle nostre interviste, un posto di riguardo lo meritano e conservano alcuni musicisti, come a ricordare ai lettori che la musica è una grande arte ed ha un posto importante nella evoluzione artistica e nella nostra storia personale. In qualità di direttore di questa rivista mi sono permesso di volere fortemente su queste pagine una rubrica dedicata al rapporto personale che le firme più importanti del web-zine e gli autori della Casa Editrice Hogwords hanno avuto con i loro dischi preferiti, con gli album musicali che più hanno influenzato la loro vita, il loro modo di essere e di scrivere, la loro formazione artistica. So che non è impresa da poco ma credo abbia una sua validità, sia come esercizio di scrittura e di esposizione sia per l’interesse generato nei lettori che, certamente, potranno avvicinarsi all’ascolto di opere forse sconosciute, o famosissime, attraverso il punto di vista dello scrittore. Nella speranza di coinvolgere in quest’impresa il maggior numero di autori ed amici possibile mi cimento con la stesura della prima puntata di questa nuova impresa musicale, giornalistica, poetica e molto personale.
Signori ecco a voi il DISCOBOLO.
Per la prima puntata di questa rubrica lo scrittore, il giornalista, il poeta si affida molto ai suoi ricordi personali chiedendo al lettore uno sforzo di memoria o d’immaginazione molto grande. Certo ritornare con la mente ai primi mesi del 1972 non è facile per tutti, visto che certamente molti lettori in quei giorni non erano neppure nati. Bene, io c’ero. Ero un ragazzino non ancora tredicenne, molto impegnato con la scuola e con una esperienza calcistica in corso, anche se non troppo convinta. Vivevo in una delle tante periferie torinesi non troppo lontane dal centro, il quartiere Parella che si dipana da piazza Rivoli verso la Pellerina, e l’aiuola della piazza era il centro del mio mondo, fatto di calci al pallone, lettura di fumetti e qualche primo libro, e scenario di tante avventure pseudo spaziali. In quell’anno a scuola l’interesse per le imprese spaziali, la prima fantascienza, le grandi scoperte archeologiche e il mondo del mistero stavano prendendo il sopravvento su mille altri interessi, anzi era come se tutto si stesse aprendo di fronte alle menti più libere e interessate e si era instaurata quasi una gara a chi si presentava per primo in classe con un nuovo enigma da proporre, una nuova lettura da condividere, una nuova moda culturale da seguire. A quel tempo la musica italiana stava evolvendosi, il mio idolo Gianni Morandi iniziava a diventare vecchio, le trasmissioni televisive stavano accorgendosi del Pop e del fenomeno Hippie, dopo averlo studiato e deriso per anni. Sta di fatto che una sera di febbraio del 1972, pochi giorni prima di vedere alla tv la finale del festival di Sanremo, ascolto alla radio una canzone che lascia il segno. È “Canto di Osanna”, la canta un gruppo di cui non riesco nemmeno a comprendere il nome. È un canto da chiesa, ha parole struggenti su Gerusalemme e un ritornello ripetitivo, ossessionante, impreziosito dal ritmo sempre più incalzante e da uno strano assolo di flauto finale. Lo sento mentre dalla finestra, come era logico in quei giorni di avvistamenti, guardo, nella sera ormai tarda, se tra il panorama delle montagne riesco a vedere le luci strane di qualche UFO in movimento. Anche oggi lo faccio, osservando il Musinè, nulla cambia a quanto pare. Sta di fatto che quella canzone mi piace, eccome. Il resto arriva da solo. Pochi giorni dopo, nella serata di Sanremo trasmessa sulla Rai, vengo folgorato, come Paolo sulla via di Damasco. Quelle voci, quei suoni prendono volti e atteggiamenti. Eccoli, i Delirium, finalmente sul palco dalla più importante kermesse canora italiana. Se altri pochissimi gruppi, o cantanti, in altre precedenti edizioni erano apparsi sul palco in abiti hippie o stravaganti, lo avevano fatto quasi come macchiette di sé stessi, quasi a prendere in giro il pubblico. Non per nulla la giacca e la cravatta erano rimasti un obbligo, come lo sono ancora, ed un segno di rispetto al pubblico. Ma i Delirium arrivano su quel palco come un’onda d’urto mai vista prima. Se il lettore vuole può trovare il video di quell'esibizione ovunque. Quello che può vedersi ora deve essere, per forza, riportato indietro nel tempo. Tutto quell’insieme di giovani, quelle chitarre, quelle ragazze in bikini, quel tipo che si agita sui bonghi e, soprattutto, il cantante, altissimo, capellone e con il flauto in mano. Lui, che canta con un vocione da basso e assume pose ieratiche, diventa sacerdote, il druido di un rito che dura tre minuti e mezzo, forse quattro, ma che lascia il segno nella storia della musica italiana. Jesahel, la canzone, diventerà il più grande successo di quel festival e verrà registrata in ogni lingua del globo terracqueo. Ancora oggi, se vedo quelle immagini, se sento quei suoni, mi sembra di partecipare ad un rito di iniziazione, ad un cambio generazionale, alla nascita di qualcosa che, almeno in Italia, non era ancora arrivato. Corro a comprare il disco, compro anche Canto di Osanna. Scopro che sul retro dei dischi di entrambi i successi sono registrate canzoni strumentali, decisamente diverse dalle hit dei lati A. Deliriana e King’s Road straboccano di Jazz, di ritmo, di abilità strumentistiche. Ci sono assoli di flauto, di piano, riff splendidi e momenti di apertura al classico incredibili in cinque minuti di musica. Devo approfondire. Metto da parte soldi. Vado in centro, una mattina, a cercare il primo album di quella formazione genovese, uscito ormai da qualche mese, senza godere del successo di Jesahel. Lo trovo, lo pago, ma non ho più i soldi per tornare a casa in tram, faccio chilometri a piedi con il mio bottino tra le mani, terrorizzato dalla paura di perderlo, di farlo cadere o, peggio, di farmelo rubare. Il disco si intitola Dolce Acqua ed è stato registrato a Torino, negli studi della Fonit Cetra, in via Bertola, nel palazzo che oggi ospita qualche ufficio della Regione Piemonte e che è all’angolo della piazzetta La Marmora. Il grande pregio del disco è indubbiamente la freschezza della proposta musicale, la qualità ottima della registrazione, la spettacolare cura degli arrangiamenti e delle orchestrazioni. Era il periodo del pop-rock, o meglio, di tutto un movimento artistico, nato nei licei inglesi, che poi si sarebbe chiamato Prog. Era un genere di musica molto particolare, decisamente onirica, che mescolava con sapienza e somma tecnica esecutiva il blues alle variazioni classiche, le nuove sonorità elettroniche al folk, le variazioni di ritmo continue ai riferimenti ed agli accordi del jazz. Una musica difficile da ascoltare e, soprattutto, da eseguire, che impegnava sia il musicista sia il pubblico in un continuo modificarsi di atmosfere e di richiami. In Italia di ragazzi bravi nell’impresa ce n’erano molti, e tutti preparati e all’estero certo non mancavano i riferimenti. Certamente suonare era più facile allora. I contratti per suonare nei locali da ballo erano all’ordine del giorno e ogni sera l’affiatamento migliorava, consentendo ai gruppi un amalgama, anche dal punto di vista umano, sempre migliore. I Delirium iniziarono a chiamarsi così per partecipare ai festival pop, per registrare il disco Dolce Acqua e per andare a Sanremo. Nei locali da ballo, nelle grandi serate danzanti erano ancora i Sagittari, e suonavano in giacca e cravatta. Dolce Acqua invece è il manifesto del pop italiano. Forse non è il più bell’album prog del tempo, forse non raggiunge certe evoluzioni stilistiche del Banco, non ha il “tiro” tarantolato della PFM, la potenza dei New Trolls o il senso onirico delle Orme, ma ha qualcosa di speciale, che si respira in ogni brano, il senso di originale italianità della musica. Naturalmente è un album concept (nel 1971 nessuno avrebbe proposto un disco pop senza una storia alle spalle) ed il concetto, semplice e chiaro è quello di un viaggio nei sentimenti umani. Ivano Fossati scrive i testi (sì il ragazzone col flauto) e la musica alla Siae viene depositata da un fonico, tale Magenta. I ragazzi, che proprio ragazzini nel 71 non sono più, hanno nomi che racchiudono storie tipiche del mare di Genova. Al basso c’è Marcello Reale, iscritto a medicina, ideatore del nome (delirium tremens), virtuoso il giusto e perfetto per dettare i tempi al batterista Peppino Di Santo, occhialuto amante dei tempi dispari e dei ritmi jazzati. Alle tastiere c’è Ettore Vigo, virtuoso pianista e anima rock jazz del gruppo, che ricordiamo protagonista di una nostra intervista, e vero precursore dell’uso del mellotron. Alla chitarra acustica troviamo Mimmo Di Martino, una bomba ritmica e virtuosa, che ci lascia di stucco. In effetti Dolce Acqua è l’unico disco di quegli anni in cui non appare il suono di una chitarra elettrica, di una Fender Stratocaster, di una Gibson Les Paul. Gli assoli di chitarra non ci sono, solo tanta bellezza di suoni acustici e perfetti. Punto di merito assoluto, italianità mantenuta. Infine, ecco Ivano Fossati che si cimenta nell’uso della voce e del flauto, lasciando una traccia profonda in questo disco (la sua esperienza con i Delirium finirà qualche mese dopo), una traccia che, secondo me, è stata fondamentale per il meraviglioso proseguimento della sua carriera. Dicevamo che Dolce Acqua è un album concept, lo è fin dalla copertina, disegnata magistralmente da Augusto Monti, che rappresenta uno ieratico Ivano nudo che sbuca da una conchiglia e tiene in mano un flauto collegato direttamente ad un cervello umano, gli altri quattro componenti sono rappresentati mentre suonano i loro strumenti in atteggiamenti decisamente beat. Bene, dalla musica al cervello. Ecco i brani. Preludio. Paura. Non molte sono state le canzoni della musica italiana che hanno trattato argomenti fantastici, Ivano, e non solo con Preludio, si cimenta addirittura con la canzone di fantascienza. Il racconto della distruzione post-atomica, impreziosito dai cori e dagli sbalzi di voce, è tutto in nel suono magistralmente registrato del flauto dolce. La voce e la sensibilità dei bambini potrà fare tornare la primavera nel buio dei nostri cuori oppressi dalla paura. Movimento Primo. Egoismo. Oddio, l’esplosione del suono, del ritmo, del canto e del flauto. Qualcosa di simile al battere dei tamburi in un ritmo tribale. Non è rock, nemmeno jazz. È una semplicissima soluzione armonica che impone una spettacolare resa emozionale. Che dire? Voci e tamburi, flauto e tastiere che si rincorrono. Pezzo imponente, trascinante e terribile nel testo. Movimento secondo. Il Dubbio. Tutta l’abilità compositiva e degli arrangiamenti esplode in questo brano dalle atmosfere barocche, classicheggianti. Il grande apporto del clavicembalo di Ettore, gli interventi della grande orchestra di Giancarlo Chiaramello, la voce di Mimmo di Martino, fanno di questo pezzo uno dei diamanti, e sono tanti, del disco. Quando finisce, perché è corto e finisce presto, ti chiedi come abbia fatto a non diventare una hit. Ne aveva tutte le potenzialità. To Satcmo, Bird and Other Unforgettable friends.Amicizia. Un pezzo jazz, puro jazz, solo jazz, suonato come un omaggio, non come un rifacimento, dedicato ai più grandi di un’epoca che ormai stava passando. Come li vedessi, immagino i ragazzini di fine anni Cinquanta ascoltare sul giradischi di papà quei ritmi e quei virtuosi americani. Genova è città di mare, Genova vive di jazz e bossanova. Un brano perfetto. Triste ed evocativo solo musicale e perfetto. Sequenza Prima e Seconda. Ipocrisia e Verità. Al primo ascolto restai allibito, poi iniziai a capire. C’era qualcosa di totalmente nuovo, strano, assurdo in questo pezzo diviso in due parti, così diverse, così dissonanti. Una ricerca musicale portata al massimo, un tentativo di cambiare, di mettersi un vestito nuovo, prima ancora d’averne indossato un altro, d’aver avuto la consacrazione. Come dire al mondo “attenzione… potremmo anche fare queste cose, potremmo spingerci avanti”. Del resto, i King Crimson avevano già fatto di tutto nei loro LP (che io non conoscevo ancora), anche registrare rumori inascoltabili per minuti interi, e lo facevano i Pink Floyd e chissà quanti altri. Nelle Sequenze, nei suoni particolari, nei ritmi e nei tempi melodiosi, c’è molta di quella necessità di esplorazione sonora che porterà agli Area e ai Perigeo. Insomma, nel cuore gioioso e semplice dei ragazzi la ricerca musicale andava avanti anche se quel genere di pezzi non era proprio da sala da ballo. Johnnie Sayre . Il perdono. Con questo brano inizia la trilogia di pezzi che hanno reso mitico questo disco, preparativi alle emozioni forti. L’antologia di Spoon River è stata scoperta in quegli anni, come se Genova fosse diventata l’America. In effetti il famoso album di Fabrizio De André “Non al denaro, né all’amore, né al cielo” è chiaramente ispirato dall’opera del poeta americano Edgar Lee Masters. Il cantautore genovese, che poi avrebbe avuto una lunga amicizia e molte collaborazioni con Ivano, faceva uscire il suo disco nel settembre del 71 poco prima delle registrazioni di Dolce Acqua. Johnnie Sayre è tratta dalla stessa Antologia ed ha un respiro poetico e musicale di notevole impatto. È un brano bellissimo, struggente ed incalzante, che alterna momenti di tristezza e intensità interpretativa alla imponente rappresentazione sonora e ritmica del treno in corsa, un vero e proprio assolo di batteria stereofonico (del resto necessario in ogni album prog che si rispetti). Memorabile. Favola o storia del lago di Kriss. Libertà. Eccola la canzone fantasy, ecco il racconto popolare rivisto in chiave rock. Anni dopo sarebbe arrivato Branduardi a narrarci storie simili (La fiera dell’Est, Samarcanda), narrazioni antiche, rielaborate rivisitate come moderne leggende. Il chiaro della luna, le acque del lago, le nubi, il vento che passa e potrebbe portare lontano. Ecco il suono Delirium, la voce di Ivano, le tastiere, la ritmica incessante, ipnotica. Il flauto, il mellotron, e quei tamburi… Resta, resterà indelebile nel tempo. Dolce Acqua (Speranza). “La chiave di violino che ci ha permesso di aprire le porte del successo, soprattutto all’estero”, così ho sentito presentare questo brano nel concerto di Ceriale del luglio 2010 da Peppino di Santo. Un brano assolutamente meraviglioso, basato sulla ripetizione di un tema melodico di sapore classico ma mai melenso anzi, che pian piano diventa trascinate, evocativo, luminoso. Un crescendo di strumenti e di voci, impreziosito prima dal flauto di Ivano poi dalle tastiere, dai pianoforti e dai tocchi ritmici delle percussioni. Conosco molta musica di quegli anni ed anche in questo caso posso assicurarvi che l’originalità è assoluta, si percepisce con l’udito ed i sensi. Il caleidoscopio di colori termina con la voce di Ivano che ci dice “Verde prato, dentro me. La tempesta passata non è ma vedo Dolce Acqua”. Ora possiamo pensare che durante un’escursione ligure i ragazzi si fossero fermati sotto il ponte da cui si vede, splendido, il paese di Dolceacqua nell’entroterra Sanremese, oppure che, stufi dell’acqua salata del mare una fontana bastasse ad ispirare una canzone. Certo è che la fine di questo Album ci lascia un desiderio impellente, quello di ricominciare a sentirlo. Dal 1971 al 2021 sono passati cinquant’anni. Quel periodo fantastico per la musica e la creatività artistica purtroppo è passato da un pezzo, e non posso fare che rendere grazie al destino di essere stato presente, consapevole di aver avuto fortune artistiche e poetiche, che si sarebbero presto dissolte. Onoro con gioia i cinquant’anni di questo disco. Se un lettore, uno solo ascolterà questo disco, questo mio pezzo enorme di vita, sarò felice, come quel ragazzino tornato dal centro con il suo disco in braccio…