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La schedina vincente
​Intervista a Sergio Commisso

Un nuovo e bellissimo progetto letterario, con valenze sportive e umanitarie, sta per vedere la luce sotto l'egida della Casa Editrice Giangiacomo Della Porta di Moncalieri. Tredici scrittori, amanti dello sport, del calcio e della sua valenza sociale e storica raccontano, nel libro “La schedina vincente” i loro ricordi e le emozioni legate ad una particolare partita, quella che, in qualche modo, ha segnato la loro vita. 
 
 
Conosciamoci meglio, chi è Sergio Commisso? Ci disegni il suo autoritratto.
Ex compagno di squadra di Marco Piano negli anni ’80 per due/tre stagioni. Lui era il fine dicitore del centrocampo, io un terzino/mediano mancino poi spostato nientemeno che a fare il libero nonostante il mio essere diversamente alto… Ma tant’è. Diciamo che sopperivo con quello che all’epoca si chiamava il senso della posizione, oltre a qualche tecnica poco ortodossa (di derivazione uruguagia, ça va sans dire).
In realtà, il maggiore traguardo da me raggiunto in una competizione sportiva non riguarda il calcio, ma… il tiro con l’arco giapponese, disciplina che in Italia definire di nicchia non rende l’idea: però sono stato campione italiano a squadre nel 2001 se non ricordo male. E qui scatta l’aneddoto, perché in pratica fui inserito nel terzetto della squadra di Torino semplicemente perché mancava il terzo! Io in realtà praticavo da relativamente poco, un paio d’annetti, ma il gruppo di Torino era in fase di ricostruzione per cui mi convinsero a partecipare: gli altri due erano dei cecchini con alle spalle non so quante decine di migliaia di frecce scoccate, tanto è vero che in finale loro due da soli stavano pareggiando le frecce andate a bersaglio del terzetto rivale. Vincemmo per una differenza di tre frecce: e mi piace pensare che a “fare la differenza” furono le uniche tre frecce che la schiappa, cioè io, riuscì a mandare a bersaglio.
A completare il quadro dei miei interessi “esotici” aggiungo il fatto di avere contratto dal fatidico 1990, l’anno protagonista del mio racconto, una malattia gravissima: l’amore per le percussioni africane che dura tuttora e che mi sta tenendo a galla in questo periodo surreale che stiamo vivendo…
Ah, sì: avrei poi anche un lavoro, ma attualmente a causa della pandemia la situazione è talmente catastrofica che sinceramente non ho tanta voglia di parlarne.
Per dovere di cronaca: non sono parente del presidente della Fiorentina…   :-))
 
Qual è, attualmente la definizione di sé stesso che preferisce?
Uno che ha nel suo destino il fatto di essere sempre stato riconsiderato per il suo reale valore quando ormai aveva già cambiato aria: è stato così in passato nel lavoro, con qualche fidanzata e anche nella musica mi è successo. Insomma, il famoso “lavoro oscuro” di Beppe Furino o per par condicio “una vita come Oriali”.
Ad esempio, in un’azienda dove ho lavorato per cinque anni ad un certo punto il titolare arrivò a rimproverarmi perché secondo lui non ero abbastanza produttivo: per tutta risposta mi licenziai con tanto di nota polemica nella lettera di dimissioni.
Seppi poco tempo dopo che per sostituirmi assunsero… due persone. Ops!
 

Entriamo in tema calcistico. Quale è la sua squadra del cuore?
Squadra del cuore quand’ero ragazzo e poi capirai perché: diciamo che simpatizzo per la Juventus, del resto prima ho citato quello che per me è il Capitano dei capitani bianconeri… A dirla tutta posso sicuramente definirmi un “gobbo atipico”, per svariate ragioni:
1) in realtà col passare degli anni l’interesse verso il calcio in generale si è via via affievolito, già a partire dall’omicidio Paparelli a Roma nel ‘79 e a seguire l’anno dopo con lo scandalo del calcioscommesse, tieni conto che all’epoca avevo 15/16 anni;
2) in casa ho un libro sulla storia della Juventus che mi fu regalato e il libro che Platini scrisse poco tempo dopo il suo ritiro, stop. In compenso ho in ordine sparso: “Belli e dannati”, “Il romanzo del Grande Torino”, “Giorgio Ferrini, il Capitano”, “Mi manca Pulici”,
“Il Toro non può perdere” di Eraldo Pecci. “Il Fila”. E il libro di Agroppi “Non so parlare sottovoce” che dovrei iniziare a leggere. Tanto per dire, no?
3) ho sempre considerato il motto “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” un’aberrazione del modo di concepire la competizione sportiva.
Mi spiego: mi sta bene la mentalità vincente, il perseguire l’obiettivo della vittoria, ma deve esserci spazio anche per la cultura della sconfitta, per l’accettazione della sconfitta, che per me vuol dire molto più che un tweet con i complimenti di circostanza verso chi ti ha battuto. La sconfitta è parte della competizione, al pari della vittoria. Quello che di meraviglioso ha tutto lo sport, non solo il calcio è che ti concede sempre una seconda occasione per rifarti: sei tu che devi dimostrare di meritarti la vittoria attraverso i fatti e la tua bravura. Il “simpatico aforisma”, fra l’altro, non lo ha neanche coniato Boniperti come normalmente si crede, ma un allenatore di football americano negli anni ‘50: io fra le righe ci leggo cose che non mi piacciono per niente;
4) ultima considerazione: ho le mie convinzioni politiche che mi hanno sempre fatto vivere il tifo per “la squadra dei Padroni” quasi come una contraddizione (come se i proprietari delle altre squadre fossero delle Onlus…). Ma questi ultimi anni di presidenza di Andrea Agnelli sono stati costellati da atteggiamenti che definire arroganti è un eufemismo. Sorvolo sul periodo di Moggi: quando quel signore entrò nella dirigenza bianconera il mio interesse verso la Juve si intiepidì ulteriormente, visto le macerie che aveva lasciato al Toro prima e poi al Napoli. Purtroppo, sulle macerie avevo ragione. E mi indigna vedere che certe emittenti continuano a dare spazio a un simile personaggio.
 
Quale è stato il suo stato d'animo quando il torinese Marco Piano, il capitano di questa nuova squadra nata per motivi letterari e benefici, le ha parlato di questo progetto? Come ha reagito alla convocazione in questa speciale nazionale di scrittori? Quali sono i motivi che fanno di (Italia-Argentina dei mondiali ‘90) la sua personalissima “partita della vita”?
Beh, è stata una cosa molto curiosa, inaspettata e gratificante per la fiducia che Marco ha riposto da subito nei miei confronti. Andò così: quando conclusi la lettura del suo libro precedente “Quando il 5 era lo stopper” gli mandai qualche riga di commento per complimentarmi del lavoro che lui e Stefano Nadalini avevano realizzato; parallelamente in quel periodo (eravamo in pieno lockdown dell’anno scorso) avevo pubblicato qualche post di riflessioni personali sul mio account Facebook che evidentemente lui apprezzò al pari delle opinioni espresse a proposito di “Quando il 5”, per cui mi inviò un messaggio per ringraziarmi concludendo così: “Ho riletto il tuo scritto. Mi piace come scrivi e poi, lo so, siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Chiamami se e quando vuoi”. Marco Piano allegò il suo numero di cellulare, anticipandomi a grandi linee il progetto che aveva in testa. Mi fece notare che nel gruppo mancava un elaborato sui temi relativi agli anni ‘90. Dopo esserci sentiti, nel giro di una giornata gli girai la prima stesura del mio racconto, cosa che lo colpì molto: in effetti fu una cosa scritta di getto, sull’onda del mio entusiasmo per la proposta da parte di una persona con all’attivo già due libri. Devo dire che anche l’apprezzamento espresso da Nadalini è stato una bella gratificazione.
La partita che ho raccontato andò a inserirsi in un periodo della mia vita denso di novità: quella più importante fu la scelta di andare a vivere per conto mio agli inizi di febbraio di quell’anno in una via a pochi metri dalla sede del Municipio, nel centro storico che più storico non si può di Torino, zona che ho sempre amato profondamente. Alla fine dello stesso anno il cambio di posto di lavoro in una ditta che finalmente mi apprezzava per quello che valevo, tanto è vero che rimasi con loro per i successivi 19 anni… e poi, sai: ventiseienne, single, fisico all’epoca (sigh!) plasmato dal karate, bilocale in centro… insomma: come la battuta tormentone nel film “Donnie Brasco”: “Che te lo dico a fare?” Ecco, avevo trovato il mio posto nel mondo.
E, ci tengo a dirlo, è stato anche un’opportunità per omaggiare, alla fine del racconto, la memoria di un mio carissimo amico che purtroppo non c’è più da qualche anno: lui sì tifosissimo juventino.
 
Visto che la Gazzetta è l’organo di informazione ufficiale delle Edizioni Hogwords, ed ha lettori molto interessati al rapporto che si instaura tra i personaggi intervistati e le loro opere, entriamo a gamba tesa nella sua storia personale: ha mai pubblicato, a suo nome o in collaborazione con altri autori, dei libri? Oltre a elencarci titoli e argomenti trattati ci può dire quali sono state le sue sensazioni a vedere stampate le sue parole, le sue idee, sulla carta?
Le uniche cose che io abbia mai pubblicato risalgono ai tempi del liceo, quando entrai nella redazione del giornalino (non autorizzato) della scuola. Ci si rifaceva al mitico settimanale satirico “il Male”: eravamo… piuttosto feroci, come sanno (sapevano?) esserlo degli adolescenti in lotta con tutto: perlomeno noi la nostra ferocia riuscimmo a incanalarla nella satira, piuttosto che nella violenza che nei primi anni ‘80 era più che palpabile. Certo, la risposta istituzionale non si fece attendere: 7 in condotta a tutti i componenti della redazione. Ma cosa ce ne poteva fregare: noi avevamo i Clash a tenerci compagnia a volume tellurico e io ero un ottimo falsificatore di firme genitoriali.
 
I suoi cari come si sentono ad avere uno scrittore, un giornalista, un personaggio che è o che diventerà famoso che gira per casa?
Ti faccio ridere: non lo sa ancora nessuno, per scaramanzia non ho fatto trapelare nulla. Ma tanto, a livello di celebrità, hanno già l’abitudine a essere imparentati con un campione italiano di tiro con l’arco giapponese...
 
Si sente di dare qualche consiglio ai giovani che si apprestano a leggere il libro “La schedina vincente”? Ha qualche raccomandazione o invito da fare alle lettrici ed ai lettori? 
Ai giovani: se non COMPRATE UNA COPIA CIASCUNO del libro vi cade il pistolino, e non fate che lo compra uno e poi ve lo passate, che lo so che fate così: vi vedo, non vale e il pistolino vi cade lo stesso.
Ai lettori più attempati… mi sa che dico la stessa cosa, sai?
Alle lettrici: vi amo tutte. Se comprate il libro, anche voi UNA COPIA CIASCUNO, di più.
 
Ci parli del futuro. Sta scrivendo, pensando o organizzando cose nuove?
Nel campo della musica ho dei progetti abbozzati ai quali partecipare e mi piacerebbe che possano finalmente prendere forma.
Non mi riempiranno la pancia, ma sicuramente possono nutrirmi in un altro modo, sai la storia “non di solo pane, ecc…” e per me è importante, è terapeutico.
Per la pancia da riempire: devo reinventarmi. Certo a 57 anni non è una passeggiata ma, riferendomi alla scaramanzia di prima, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.
 
 
Per finire ci racconti di questo periodo tremendo del virus. Ha avuto esperienze particolari, paure, tristezze o gioie inaspettate da raccontare? Cosa rimarrà nel suo cuore dei lunghi giorni passati in quarantena? Con quali speranze e desideri l’uomo Sergio Commisso si appresta al ritorno della vita normale, se mai la vita ritornerà normale?
La gioia immensa sta nel vedere, quando riesco e a seconda se si può uscire dal Comune di residenza, il mio nipotino di due anni (figlio di mia nipote, che è la figlia di mio fratello).
Per il resto, ho cercato di resistere, come tutti: facendo molta attenzione. Con gli alti e bassi a livello psicologico che chiunque penso abbia avuto, ma cercando di non farmi sopraffare dalla psicosi o dalla depressione. Non so se si può parlare di resilienza, che tra l’altro è una parola che non mi piace, troppo “di moda” per i miei gusti, diciamo che ho cercato di tenermi lontano da tutto quello che in questo momento potrebbe essere tossico per me a livello mentale: ad esempio i telegiornali mainstream. Purtroppo, non sono riuscito a stare abbastanza distante dal cioccolato fondente, però dai, tutto ha un limite!
Dei lunghi giorni passati in quarantena rimarranno, appunto, i chili da smaltire e la pigrizia da togliermi di dosso, come il fango di quando si giocava nei campi in terra battuta dopo tre giorni di pioggia incessante, col pallone che faceva “skluackt” quando toccava terra. Per il resto, vedendo i comportamenti di tanti nostri simili, dai personaggi pubblici a noi cittadini comuni, confesso di aver cominciato a tifare per il meteorite. Qualunque meteorite.
Le speranze e i desideri sono quelli di sempre: sesso, droga e rock and roll!… Ah, no, scusa: volevo dire salute, vita dignitosa (uhm!) e togliermi almeno una soddisfazione che NON dico sempre per scaramanzia e avere finalmente una Nazionale italiana di rugby all’altezza del 6 Nazioni. Eh, sì: lo confesso. Da diverso tempo il rugby ha cominciato a rosicchiare nel mio cuore il posticino riservato al calcio. Il sogno, prima della mia dipartita da questo mondo, sarebbe quello di riuscire a vedere una vittoria a Twickenham, uno dei “luoghi sacri” del rugby: almeno quanto lo era il vecchio Wembley, forse di più...

Claudio Calzoni



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