Incontro con il giornalista e scrittore Darwin PastorinIl cielo limpido di questo settembre che ci regala un prolungamento gradito d’estate, abbraccia il paesaggio collinare di Torino. Piazza Vittorio, in questo caldo pomeriggio, è bellissima. Seduto sulle poltroncine del dehors di un locale, sorseggiando un ottimo caffè, sono veramente felice di incontrare il famoso giornalista Darwin Pastorin, firma importante nel panorama della cultura piemontese. Cantore di sport, come ormai sono rimasti in pochi, e uomo di una sensibilità unica, Darwin si racconta a me, ed ai nostri lettori, in una conversazione molto amichevole. Nei caldi riflessi pomeridiani, arrivano, da un Juke-Box affacciato alla spiaggia di Copacabana, insieme al respiro delle onde dell’oceano, le note di una dolcissima samba e le urla di un gruppo di ragazzi che gioca a pallone sulla sabbia. Ma torniamo a Torino, alla Juve, al Toro, al caffè ed alle nostre riflessioni.
Iniziamo con una mia piccola richiesta di rito. Chi è Darwin Pastorin? Dipinga il suo autoritratto per i nostri lettori. Sono orgoglioso di essere figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. Questa è la mia “carta d’identità”. Poi, scrivo e ho ancora tanti sogni da realizzare. Ho un figlio splendido, Santiago, di ventidue anni, grande esperto di geopolitica e tifoso del Cagliari. Un gatto di quattordici anni di nome Gil. Amo leggere e i libri mi hanno aiutato in tanti momenti di crisi, fin da ragazzo. Come è nata la sua passione per la scrittura? Nasce con la mia mamma. Da piccolo mi leggeva le favole di Monteiro Lobato in portoghese (sono nato a San Paolo del Brasile) e i romanzi di Emilio Salgari in italiano. Sandokan e il Corsaro Nero sono stati i miei primi eroi. Ho cominciato a scrivere da piccolo: inventavo storie incredibili, commoventi e assurde! Mia madre mi incoraggiava. E a un certo punto, per mia fortuna, sono arrivati Vladimiro Caminiti e Giovanni Arpino a indicarmi la strada del giornalismo e della letteratura. Il mestiere di giornalista sportivo sta cambiando. Qualche anno fa i grandi narratori delle imprese sportive riuscivano a fare palpitare di emozione i lettori e gli spettatori di eventi che, nell'immaginazione popolare, hanno assunto il valore del mito. Lei, sicuramente, è una di queste firme importantissime, scrittori e poeti che hanno saputo regalare al mondo del giornalismo ed a quello dello sport (non solo del calcio) personaggi leggendari e carichi di valori rendendoli immortali, spesso, nel cuore dei tifosi. Cosa ricorda di quel periodo d’oro? Cosa è cambiato adesso? Il giornalismo sportivo è molto cambiato. Un tempo era “vicinanza”, ora è “lontananza”. Noi cronisti potevamo avere tutti i giorni la nostra intervista esclusiva, gli allenamenti erano aperti e i calciatori possedevano come unico “filtro” la segreteria del telefono fisso. Oggi i giocatori “parlano” soprattutto attraverso i social e gli allenamenti sono blindati. A comandare sono gli uffici stampa. Un piccolo accenno, un ricordo. Lei è stato ed è amico di molti campioni dello sport ed ha, senz'altro, centinaia di aneddoti da raccontare. Me ne basta uno, per far contenti i lettori. Ricordo il viaggio, in aereo, da Barcellona a Napoli, nell’estate del 1984, con Maradona. Il fuoriclasse argentino lasciava la società catalana per approdare a quella partenopea. Era giovane, felice, già innamorato della sua nuova avventura. Su quel volo, parlammo molto: non solo di calcio, ma anche di vita, di futuro, di passioni. Dopo pochi giorni, lo intervistai per il mio giornale, "Tuttosport". Gli chiesi: “Come farai a superare la nostalgia per Barcellona o per Buenos Aires?”. Mi rispose, con un sorriso a girasole: “Mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli”. Per me, Dieguito è il Borges del calcio. Accennavo alla poesia. Lei ha scritto molto, usando sempre l’anima e il cuore più della macchina da scrivere (lo so, ho assistito a suoi interventi, ho letto molti suoi articoli e la seguo sui social). Cosa pensa della poesia, della letteratura di oggi e del Darwin poeta? Non sono un poeta. Amo la poesia (Guido Gozzano, Tony Harrison, per citare due miei autori prediletti), ma non ho mai scritto un verso in vita mia. Mi piace narrare, essere, come insegnava Giovanni Arpino, un “bracconiere di storie e personaggi”. Il calcio, quando vuole, e come insegnava Pier Paolo Pasolini, sa anche essere “poetico”. Scriveva PPP, nel 1971: “Chi sono i migliori dribblatori del mondo ed i migliori marcatori di goal? I brasiliani. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal”. Come dargli torto? Penso a Zico, al mio amico fraterno Leo Junior, a Ronaldinho e, ovviamente, all'immenso Pelé. Ho avuto amici che hanno vissuto in Brasile, ho amici laggiù e, durante una settimana nuvolosa durante il carnevale, da venticinquenne, ho avuto anche io la fortuna di assaporare l’atmosfera magica di Rio de Janeiro. Quello che è rimasto, in me come in tutti i miei conoscenti, è una grande nostalgia della vibrazione unica di quella terra. Per un attimo può raccontare ai nostri lettori che cos'è la saudade? La saudade è impossibile da definire. È un sentimento che supera la nostalgia, la malinconia. Antonio Tabucchi mi ha insegnato che esiste anche una saudade del futuro. Sento dentro di me, e molto, la saudade: per quello che è stato e per quello che sarà. E amo il Brasile dei miei ricordi, della mia infanzia: quando tutto era ancora vero, quando tutto era ancora possibile. Torniamo al giornalismo. Quali sono i consigli del veterano ai ragazzi, ai neofiti, che si vogliono cimentare nella professione? Quali sono i sentieri da prendere e le montagne che occorre scalare per ottenere qualche soddisfazione professionale? Di non mollare mai. Di credere, sempre e per sempre, nei sogni. Il giornalismo è vita, amore, fuoco, tormento e bellezza. Il periodo è difficile, ma il nostro mestiere non morirà mai. Mai. Coraggio, giovani colleghi! Domanda istituzionale. Lei ha pubblicato molti libri, ce ne cita qualcuno? Quali sono, e sono stati nel tempo, i suoi rapporti con le case editrici? Tutti i libri sono creature amate. Penso ai miei: da “Le partite non finiscono mai” a “Lettera a mio figlio sul calcio”, da “Io, il calcio e il mio papà”, scritto con mio figlio Santiago, all'ultimo: “Gaetano Scirea. Il Gentiluomo”. Ma tutti, ripeto, sono nel mio cuore. Sono terra e vene. Meraviglia e bagliore. Il periodo di clausura, questa strana estate, il virus che ha bloccato e attanaglia di continuo la vita sociale ed economica del mondo. Cosa resta, e cosa resterà di questo periodo nell'uomo Darwin Pastorin? Quali sono, in queste prospettive e nell'ottica letteraria, i suoi progetti per il futuro? Il periodo di lockdown è stato, per tutti, molto duro, difficile. Ma ci ha insegnato a resistere e, sono convinto, a essere migliori. A confortarmi, in quei lunghi giorni, è stata la letteratura: non esiste antidoto migliore allo sconforto, alla tristezza di un buon romanzo. Ho riletto Pavese e Fenoglio, Hemingway e Carrère. Non solo: a farmi compagnia è stato anche Tex, il mio fumetto preferito! E vi consiglio due autori spagnoli: Javier Cercas e Manuel Vilas. Non vi deluderanno. Non posso far altro che ringraziare Darwin Pastorin per questo incontro. Abbiamo scoperto, cari lettori, come la grande passione per lo sport e la letteratura siano parte integrante nella sua produzione di autore e di giornalista. Nella grande piazza torinese, nel salotto della città subalpina, tra le prime ombre del crepuscolo, il pallone calciato dai bambini, su quella spiaggia lontana, arriva rimbalzando verso il nostro tavolino. Darwin si alza e, battendomi sul tempo, lo calcia al volo. Quanta gioia, e poesia e speranza c’è ancora in una palla di cuoio… Grazie di raccontarci ancora tutto questo, carissimo Darwin. Claudio Calzoni |