Intervista a Annibale Barca
Arrivai al colle del Moncenisio con la mia auto, verso il mezzodì di un giorno della prima metà di Ottobre e ancora non aveva nevicato. Avevo un obiettivo ben preciso da raggiungere che mi ero prefissato e non volevo mancarlo. Scaricai il piccolo zainetto con il mio invertitore spazio-tempo e mi avviai verso un tratturo che iniziava la via per raggiungere il passo del Col Clapier. Giunto che fui dopo un’ora di cammino, tirai fuori dallo zaino il mio invertitore e lo accesi. Lo calibrai sul periodo attorno al 218 avanti Cristo, e subito acchiappò un segnale e un leggero sibilo si sparse per l’aere, mentre attorno l’ossigeno sembrava friggere. Sentii un suono stridente e poi un secco colpo ed ecco apparirmi davanti un elefante con sulla groppa un uomo dall’abbigliamento antica maniera dei guerrieri cartaginesi.
«Per Tanith e Melkart messi insieme!».
Sbottò l’uomo, «Dove sono capitato? Ma… mi sembra di riconoscere questo luogo.. Forse».
Io sbiancai per lo stupore, avevo raggiunto il mio scopo e dissi a gran voce: «Ma Lei è ANNIBALE Barca di Cartagine, l’uomo che fece tremare Roma!».
Lo sconosciuto rimase un attimo interdetto, poi disse: «Chi mi appella in modo così entusiasta?».
Mi ricomposi e mi presentai spiegandogli perché si trovava lì, non tanto per lo spazio, nel quale forse vi era già stato secoli addietro, ma per quanto riguardava il tempo.
«Ci troviamo nell’anno domini 2022 o per meglio dire perché lei comprenda, a 2836 anni dalla fondazione di Cartagine e io sono un cronista o, meglio, sempre per farle capire, uno scribano del periodo storico in cui adesso si trova».
Annibale mi guardò prima con fare sospetto e indispettito ma poi disse:
«Da dove vengo, ho imparato che il Tempo non è che un sospiro e i miei dèi un sogno vagante nel nulla, quindi, scribano di un tempo a me sconosciuto, ti do il permesso di porgermi delle domande».
Io non aspettavo altro e cominciai senza por tempo al tempo.
«Generale Annibale, nel nostro periodo storico Lei è conosciuto come una figura universale: il Generale Cartaginese che fece tremare Roma. Il suo odio verso Roma Caput Mundi, però, da dove deriva?».
L’espressione del suo viso prima si fece cupa, poi, aggrottando una ruga, avendo leggermente chiuso l’occhio destro, cominciò a rispondere.
«Il mio odio per Roma si formò sin dalla tenera età, dall’insegnamento di mio padre Amilcare, che mi iniziò nel credere nel popolo di Cartagine, nella sua grande Cultura e forza nella libertà del commercio, la quale stava per essere crudelmente e cruentemente calpestata dalla tirannia di Roma, violenta carnefice di ogni libertà che non fosse la sua. Mi ricordo che all’età di quattro anni vidi mio padre mozzare il naso del console romano Attilio Regolo, perché aveva per ben tre volte ingannato Cartagine contravvenendo agli accordi stipulati con Roma. Il potere supremo non si può condividere, mi fu insegnato, e Roma su questo non intransigeva mai.
«Mi racconta come avvenne il suo giuramento di odio contro Roma?».
«Ricordo quando mio padre mi portò per la prima volta al tempio sacro di Melqart. Non sarei mai più andato in quel boschetto di platani, mandorli, cipressi e mirti, lungo quel sentiero lastricato di ciottoli neri. Nel tempio, davanti al sommo sacerdote Achololim, un eunuco mi coprì con un mantello rosso sangue e altri due portarono un cane nero e mio padre, con un colpo solo della sua spada, lo tagliò in due. Il suo sangue sfrigolò sul fuoco sacro e il gran sacerdote disse: "Possa questo destino ricadere su di te, Annibale, figlio di Amilcare, se infrangerai questo giuramento". Poi, vicino a un trogolo di pietra, furono condotti un torello bianco e una pecora nera, simboli del giorno e della notte, ai quali mio padre tagliò la gola e fece riempire la vasca del loro sangue e nel quale io vi immersi le braccia. Ricordo ancora le parole che il gran sacerdote mi fece pronunciare nel giuramento: "Io, Annibale Barca, figlio di Amilcare, giuro sui serpenti di Melqart, su Eschmoun, sull’oscurità di Panit e pronuncio questa solenne promessa di odiare Roma per sette volte: immortale ostilità a Roma, mai pace con Roma, mai tregua con Roma, mai pietà verso Roma, finché vivrò o finché un solo romano camminerà sulla Terra o navigherà per mare. Su me stesso giuro queste cose".
Si, ereditai quest’odio da mio padre ma l’ho rifinito e affilato, perfezionato e reso mio. È stato l’alambicco della mia anima».
«Come iniziò la sua preparazione per contrastare la potenza romana?».
«Tornando a palazzo mio padre mi disse che Cartagine era finita. Quello che la sua guerra contro i romani aveva iniziato, la sua guerra contro i mercenari traditori aveva portato a termine. Le casse di Cartagine ormai erano vuote e la Sicilia, Malta, la Sardegna, la Corsica, ormai in mano nemica. Inoltre i maledetti romani chiesero la loro Indennità in oro. "Ma ricostruiremo una nuova Cartagine, in Spagna", disse, "e lì ricostituiremo il nostro esercito. Tu ne sarai la guida". Se la guerra senza tregua mi aveva insegnato il combattimento e la strategia militare, i preparativi per la nostra partenza per la Spagna m'insegnarono cose di uguale importanza. Mio padre avrebbe preso dodicimila uomini, tremila cavalli, quaranta elefanti, lo avrebbero accompagnato quarantatré galee rimesse a nuovo, insieme a minatori, tessitori, fabbri, scribi, carpentieri, stallieri, cuochi e schiavi. Io preparai i miei piani insieme a Sileno, il mio erudito tutore e maestro, e così passarono i primi mesi del mio decimo anno di vita. Sottomettere e alleare, anche questo lo imparai in Spagna e da mio padre. La guerra senza tregua mi aveva insegnato come trattare i nemici. In Spagna, però, vidi che un altro sistema per trattare con i nemici è farseli amici. Il viaggio verso la Spagna fu agevole, marciammo per trenta giorni fino a giungere alle colonne d’Ercole, sullo stretto del mar Tirreno. Che uomo fu Ercole! Arrivato come noi al monte Hacho e, visto che era unito a Gibilterra e che gli bloccava il passaggio, nonostante ci fosse il mare da entrambi i lati, aveva abbattuto la montagna ed era giunto in Spagna, navigando nella coppa di Helios, il Dio del Sole, su un mare ardente. Così nacquero le colonne d’Ercole, tra le quali dovevamo passare, e quando le Alpi molti anni dopo ostacolarono il mio cammino ci ripensai: quando una porta sembra chiusa, attraversala senza paura. Anche nel trasporto degli elefanti imparai ciò che feci poi per far attraversare i miei nella campagna verso l’Italia, sull’Ebro e il Rodano. Mio padre fece portare molti tronchi sino al molo e grandi quantità di terra, ammucchiandola sui legname galleggiante sino a che il loro livello fu uguale a quello della banchina, poi costruimmo delle mura di palme e fronde attorno a questa terra galleggiante. Due elefanti furono condotti lungo il molo fino a quella che doveva sembrare loro la terraferma e gli altri li seguirono senza paura. Così io vidi e imparai».
«Suo padre volle andare in Spagna per fondare una nuova Cartagine. A che scopo e come?».
«Andammo a Gadez. Agli occhi di un ragazzo era simile a Cartagine, in una versione più piccola. Aveva l’agorà, templi e naturalmente la sala del consiglio degli anziani della città e un tribunale. I romani ci definivano selvaggi ma diverse centinaia di anni prima che Roma fosse solo un pensiero, Cartagine aveva già una costituzione. I romani regnavano con la paura, sprezzanti delle leggi. Cartagine, è vero, regnò anch’essa grazie alla paura ma era esercitata nei limiti della legge stabilita dalla costituzione. Gadez aveva dunque il suo consiglio e il suo tribunale poiché anche Cartagine era così. A quindici anni uccisi il mio primo uomo, faceva parte di un gruppo di briganti Basetani che saccheggiavano i nostri insediamenti iberici, con un colpo di giavellotto ed ebbi l’impressione di essere stato come un fulmine, del resto il mio cognome non poteva essere più azzeccato. Mio padre mi disse che avremmo presto costruito Carthagena e che dovevo studiare le battaglie di Pirro con l’aiuto di Sileno e così feci. Se è alla mia nascita che devo il mio odio a Roma è a quegli anni in Spagna che maturai la mia abilità di far leva su di esso. Mio padre prese accordi per far sposare mia sorella Sofonisba ad Asdrubale il bello, uno dei più ricchi e potenti commercianti di Cartagine, legato al consiglio degli anziani, e questo lo fece per assicurare, a Carthagena e a me, tutte quelle ricchezze che sarebbero servite per battere Roma. Conquistare le terre spagnole e sottomettere le tribù locali non fu incruento, tanto che nel combattere contro i Vettoniani di Heliche, mio padre, per difendermi, morì tra le mie braccia, per una picca che lo colpì al fianco. Mi diceva sempre: "Aspettati l’imprevisto, Annibale" e questo giunse portandomi via la sua anima. Io, diciottenne, rimasi solo come un bimbo che si sveglia di notte e ha paura. Mi lasciò sotto il Sole cocente e il volo dei nibbi sulle nostre teste. Mi disse: "Roma, Annibale, Roma!". Poi spirò. Io presi il comando di quella nuova forza cartaginese, preparata per cogliere Roma di sorpresa».
«Come si preparò al comando?».
«Carthagena divenne la sede per la preparazione dell’esercito, insieme ai miei fratelli e ai miei fidati amici come Maharbale, principe degli Oretani, che divenne comandante della cavalleria, Hamilax, famiglio di mio padre, e Sileno, il mio tutore greco che m'insegnò tra le righe dell’Odissea e altri testi, il segreto della strategia, come quella di tal Pirro Re dell’Epiro che diede, con i suoi elefanti, filo da torcere ai romani.
Io amai l’esercito che creai, come adorai Similce la mia dolce sposa, figlia di Fuano, capo della tribù spagnola dei Turdetani, che amai immensamente e persi, uccisa nella piana italica. Fu un altro momento che indurì ancor di più il mio cuore contro i romani. A ventun’anni, con l’aiuto di Asdrubale il bello e i miei consiglieri più intimi, preparai l’esercito che doveva conquistare Roma. Una delle prime innovazioni, fu quella di rendere la cavalleria e la fanteria un tutt’uno intercambiabile e di far letteralmente volare i miei soldati, fulminei, letali. Ci volle molto tempo, anche grazie al dono della retorica usato verso i miei soldati, insegnatami da Sileno. L’esempio, poi, nel compattarli nei ranghi e nel motivarli. Cominciai da me stesso, mangiando quel che mangiavano i miei soldati, indossando quel che loro indossavano, combattendo come loro.
Creai un esercito che non fu mai sconfitto perché sin quando non fui copiato da Scipione, ho fatto la cosa migliore».
«Quale fu il suo programma di guerra contro i romani?».
Feci il programma d’attacco. Sagunto, avamposto commerciale romano, doveva essere distrutto. Asdrubale il bello si oppose anche perché sapeva che il consiglio cartaginese col quale era in contatto, non voleva riaprire le ostilità con Roma ma io seppi convincerlo. Marciammo su Sagunto e l’assedio durò diversi mesi ma poi la città cadde. La mia nuova cavalleria era invincibile. Poi Asdrubale il bello venne assassinato in una congiura voluta da Bomilcare, il nuovo sufeta di Cartagine che non voleva iniziare nuove ostilità con Roma, con lo scopo di ridurmi i rifornimenti e bloccare le risorse e i beni che mi servivano per foraggiare l’esercito ma io seguitai nel mio scopo. Scrissi agli anziani dicendo che intendevo dar potere a Cartagine e volevo dimostrare interamente le mie intenzioni con le azioni. Parlai ai miei uomini dicendo: "Non c’è spazio per Roma e per Cartagine. Una deve cadere e insieme, faremo in modo che sia Roma, perché voi siete il più grande esercito che il mondo abbia mai conosciuto. Dopo di che potrete vivere con Cartagine vostra alleata, come vostra amica. Diverrete ricchi e liberi contro la tirannia di Roma. Soldati, preparatevi adesso a marciare!».
«Come iniziò la campagna per invadere la penisola italica?».
«Marciai con l’esercito verso nord, composto dai Frombolieri iberici che erano in avanguardia, seguiti da duecento squadroni di cavalleria pesante, protetti da armatura e poi i miei elefanti. Seguivano dietro a loro, centinaia di carri, carichi di tende, pelli, cibo, armi, scorte e poi per ore sfilava la fanteria divisa in squadre. Molti erano Spagnoli ma c’erano anche Pericani, Paeti, Numidi, Concaniani, Arbaciani, Cerretani, Gallaciani, Autololi.
Il primo mese di viaggio fu pesante, battuto da piogge consistenti. Ero convinto della forza della mia cavalleria, come sapevo che l’esercito romano era composto da uomini che avevano scelto di prestare servizio per difendere le proprie case. I miei uomini però sapevano che servendomi avrebbero migliorato non solo la loro posizione economica ma avrebbero scongiurato il pericolo di vedere distrutta la loro civiltà. I Generali di Roma erano più politici che non soldati e per di più cambiavano ogni anno per paura di creare una dittatura militare. Il mio esercito, invece, combatteva per me come un sol corpo e una sola mente. Giunti in Catalogna, avemmo guai dalla tribù degli Ellergeti, che non amavano Cartagine ma neppure Roma. Erano padroni di loro stessi e io non potevo permettere di lasciarmi un nemico alle spalle. Fu una lezione che mi servì poi per altre tribù come quella dei Taurini appena giunsi in Italia. Dovetti massacrare tutti questi popoli. Gli Ellergeti combatterono sino alla morte o si suicidarono piuttosto che arrendersi. Non potei avere pietà. Lasciai andare però dieci uomini perché raccontassero lo sterminio per mano mia alle altre tribù, in modo da non trovarmene dinnanzi altre, ribelli, quanto piuttosto inclini all’accordo e a seguirmi. Incontrammo molte tribù galliche come i Volci e le sottomettemmo.
Ricognitori romani dell’esercito di Scipione, c'intercettarono e allora dovetti pensare in fretta e con un doppio punto di vista, il mio e quello del nemico. Se fossi stato Scipione, avrei portato la flotta in Italia e avrei aspettato dall’altro lato delle Alpi. Dovetti quindi velocizzare gli spostamenti marciando anche di notte».
«Come avvenne la traversata sulle Alpi?».
La vista delle Alpi demoralizzò gli uomini. Li avevo messi già a dura prova. Intravidi la mia occasione da un altopiano e ordinai un’adunata. Avevo con me anche i Boi, tribù gallica nostra alleata, che aveva stazionamenti di qua e di là delle Alpi e molti loro uomini erano nelle nostre file comandati da Magilo, che conosceva molto bene i passi e i sentieri per valicare le Alpi. Feci salire i capi tribù dei Boi e Magilo sul carro insieme a me, poi dissi: "Soldati di Cartagine, siamo sotto le Alpi e so che molti di voi hanno paura a valicarle. Guardate questi uomini al mio fianco, parlate voi con loro, sono i discendenti di quei Galli che tante volte hanno attraversato e riattraversato le Alpi che voi temete. Vi diranno, come hanno fatto con me, di come due secoli fa Belloveso guidò la sua tribù degli Insubri sulle Alpi e fondò a valle una grande città, Mediolanum, dall’altra parte. Gli stessi Boi, i Lingoni, i Senoni, tutti loro sono venuti giù dall’altro lato e hanno condotto la loro armata, più grande della nostra, attraverso queste montagne che temete così tanto". Continuai, "Sinora non siamo stati sempre vittoriosi? Il bottino che avete ottenuto a Sagunto sarà cento volte più grande quando conquisteremo la penisola italica. Abbiamo attraversato l’Ebro, i Pirenei, il Rodano. Non dovreste avere paura. Così convinsi i miei uomini a continuare. Avevo cinquantottomila fanti, ne avrei reclutati altri tra i Galli. Guidati da Magilo, iniziammo ad arrampicarci lungo sentieri di pietrisco ghiacciato e proseguimmo in una stretta gola. Improvvisamente enormi pietre caddero sulla colonna del mio esercito. "Sono gli Allobrogi", mi disse Magilo, "tribù galliche dei monti, anch’esse senza legami se non con sé stesse". Dovetti occuparmi anche di loro, perdendo molti uomini, carri, vettovaglie. Trovammo pure una enorme roccia che bloccava il passo agli elefanti e le masserizie non passavano. Dovetti bruciarla con fascine e aceto per rendere la roccia friabile e poterla spaccare a colpi d’ascia e martello. La neve continuava a cadere, il tempo passava e la fame degli animali e degli uomini aumentava ma riuscii anche in questa impresa. Quando una strada è chiusa, passaci attraverso e non aver paura, il modo lo trovi sempre.
Con fatica, allo stremo delle forze, discendemmo il passo… forse quello dove mi trovo ora?».
«È sicuro che questo sia il Passo che Lei valicò?».
«Non riesco a esserne sicuro, è passato troppo tempo e la vostra geografia è cambiata ma non credo sia importante».
«Cosa successe quando con l’esercito raggiunse la pianura padana?».
Giunti a valle, ordinai l’adunata. Mi erano rimaste soltanto ventimila unità di fanteria, seimila di Cavalleria e i trentasette elefanti, tutti esausti e deboli. I muli che trasportavano l’oro erano andati perduti, caduti nei burroni, coperti dalla neve, o rubati dai disertori. Ogni mattina scoprivo che sempre più uomini erano scappati durante la notte. Eravamo deboli e congelati, affamati e peggio ancora, scoraggiati ma non mi persi d’animo. Le battaglie si vincono soprattutto con la volontà! Riorganizzai l’accampamento con tenacia, e rinquadrai gli uomini. Giungemmo dinnanzi al villaggio della tribù dei Taurini all’inizio della pianura…».
Lo interruppi.
«Io vengo da lì».
«Ah, sì? Sei un Taurino?». Disse Annibale.
«Vivo nella nuova città del ventunesimo secolo sorta nel territorio di quella antica tribù ma è tutta un’altra cosa».
«Ne convengo». Rispose.
«Sapendo che, giunto in pianura, trovò il territorio della tribù dei Taurini che le erano ostili, come si comportò?».
Dall’esperienza fatta con gli Ellergeti, dovetti massacrare il popolo e bruciare la città, sempre per il timore di non ritrovarmi alle spalle un popolo ostile. Non potevo permettermi di rischiare.
Con i Taurini, però, usai un ulteriore stratagemma, ai prigionieri diedi due possibilità: o morire o combattere per me, con la promessa di essere liberati e ricompensati con sonanti monete d’oro. Li utilizzai poi nelle prime linee della battaglia del Ticino, il primo scontro diretto con i romani, mandandoli a falcidiare con le loro spade le gambe dei fanti romani in prima linea».
«Come si preparò e rinforzò l’esercito, sapendo che i romani l'aspettavano oltre la pianura?».
«Dovevo avere altri uomini, come i Liguri e i Celti, questi erano i soldati di cui avevo bisogno, erano i tradizionali mercenari di Cartagine. Non i Galli, uomini traditori e poco consoni agli ordini in battaglia. Per trovarli, dovevo spingermi verso sud est e tra me e quelle regioni c’erano i romani, forse il doppio o il triplo di noi ma dovevo cominciare ad affrontarli. Con la mia cavalleria pesante potevo farcela e ce la feci sul Ticino, sebbene persi tutti i miei trentasette elefanti, ormai stremati. Feci volare i miei Soldati e tenni la cavalleria numida indietro per l’ultima offensiva. Fu solo una schermaglia ma ne venni a capo. Si riuscì anche a ferire gravemente il console Scipione, sebbene fu difeso dal figlio che poi incontrai di nuovo anni dopo a Zama e riuscì a sconfiggermi.
Mi spostai poi sul fiume Trebbia, vicino al Castro di Piacenza, primo avamposto romano nella pianura, e sconfissi lì le legioni di Sempronio e proseguii. Per via dei miasmi e delle mosche che trovammo nelle paludi che dovemmo attraversare, persi il mio occhio sinistro ma non me ne curai più di tanto, ero troppo preso a realizzare il mio piano di conquista. Proseguii senza esitare, giungendo sino al lago Trasimeno in barba alle legioni di Flaminio che comunque mi seguì a sud».
«Giunto con l’esercito nel cuore della penisola italica, in pieno territorio nemico, come si comportò e cosa avvenne?».
«Diedi ai romani sul Trasimeno una delle loro prime sconfitte più brucianti e collaudai nel mio esercito la capacità di recepire fulmineamente i segnali d’attacco attraverso i lampi degli specchi in bronzo, che furono determinanti per raggiungere il risultato finale della battaglia. Uccidemmo più di quindicimila romani quel giorno e un Gallo insubre di nome Ducario, mio alleato, mi portò la testa del Console Flaminio. Non facemmo prigionieri sul lago Trasimeno. Poi non marciai direttamente su Roma perché la città poteva ricevere rifornimenti direttamente da Ostia e io non possedevo una flotta e non avevo la sicurezza di un appoggio da parte delle città italiche a cui potevo chiedere un aiuto. Per ciò decisi di non assediare Roma per il momento, anche se Maharbale e i miei fidati comandanti non erano d’accordo su questa mia decisione. Marciammo quindi verso Canne, perché avevo bisogno di cibo per rinfrancare i miei uomini, sebbene le Legioni di Massimo il temporeggiatore, chiamato così perché non mi attaccava mai, e quelle di Marco Minucio Rufo, mi stavano sempre appresso».
«La battaglia di Canne è ritenuta il suo più grande capolavoro. Ce la racconta?».
«Canne era un importante magazzino romano e lì ebbi il mio più grande successo. Saziai i miei uomini, mentre ero stato informato che le Legioni di Varrone e di Emilio, che avevano sostituito in comando Fabio Massimo e Marco Minucio Rufo, si stavano avvicinando a gran velocità. Quando giunsero, le circondai effettuando una manovra a tenaglia che non si aspettavano e sui campi di Canne morirono migliaia di romani. Quando il Sole tramontò, tutt’intorno a me c’erano mucchi di cadaveri dei romani morti.
L’Italia, era mia».
«Dopo Canne, però, iniziò il suo indugio e il declino della sua campagna di guerra. Perché? Cosa successe?».
Forse fu la stanchezza, forse un uomo non dovrebbe mai conoscere un potere così grande come ebbi io dopo Canne. Forse furono le tenebre in cui avevo vissuto così a lungo, creandomi le ferite che mi ero prodotto combattendo. Il dolore non era quello del mio corpo ma della mia mente. Persi la capacità di cambiare, l’innocenza e l’umiltà di poter cambiare. Trentacinque anni erano passati dall’inizio della mia guerra contro Roma e non potevo più permettermi di essere semplicemente un uomo. Le aquile non generano colombe e io non potevo permettermi di mollare. Cartagine non mi aiutò più di tanto e i miei fratelli Asdrubale e Magone, che tentarono di darmi man forte cercando di portare i loro eserciti e la loro flotta nella penisola fallirono miseramente. Io ero confinato in Campania e nel Bruzio, marcato a vista dalle Legioni romane. I romani gettarono nel mio accampamento la testa di mio fratello Asdrubale ucciso nella battaglia del Metauro. La mia rabbia e la mia delusione furono indicibili.
Cartagine fu poi assediata dalle Legioni di Scipione l’africano e mi fu richiesto da parte del consiglio degli anziani di tornare in Africa per difendere la Città.
Tornai per affrontare Scipione a Zama.
Lo incontrai prima della battaglia, e gli dissi che due potenze come Roma e Cartagine non dovrebbero avere appetiti e possedimenti al di fuori dei propri territori e i rispettivi comandanti non dovevano lasciarsi entusiasmare dal desiderio di volere cose altrui come fanno i fanciulli. Se avesse vinto lui, non avrebbe poi acquisito molto di più di quel che Roma già aveva ma se avesse perso, avrebbe vanificato ogni cosa. D’altronde la fortuna è una delle cose più labili del mondo. Gli proposi la pace offrendogli di lasciargli tutti i territori da loro conquistati, la Sicilia, la Sardegna e la Spagna, mentre Cartagine si impegnava a non fare più alcuna guerra contro Roma ma egli mi disse che erano stati i Cartaginesi ad aprire le ostilità contro i romani e che Roma aveva conquistato i loro territori soltanto per difendersi e tutelarsi da ulteriori attacchi. E poi disse anche che i Cartaginesi erano perfidi e traditori contro ogni accordo che Roma aveva concesso loro e quindi che Cartagine doveva sottomettersi in maniera incondizionata. Mi resi conto che l’unica alternativa era quella di combattere.
Persi. Scipione aveva imparato le mie tattiche e le utilizzò in battaglia.
Scappai in Bitinia, sotto il Regno di Prusia, ma avendo scoperto che i romani stavano facendo pesanti pressioni per convincere Prusia a consegnarmi a loro, decisi di togliermi la vita. Ero ormai vecchio e stanco, e MAI avrei sopportato di dare ai romani la soddisfazione di essere loro prigioniero.
La luce stava scemando ormai sul Colle e i primi fiocchi di neve stavano cominciando a cadere. D’improvviso l’immagine di Annibale cominciò a divenire diafana, sebbene ancora ben visibile sul suo elefante. L’invertitore di spazio – tempo cominciava a surriscaldarsi e a fischiare. Compresi che presto Annibale sarebbe scomparso dalla mia vista.
«Addio Generale! Grazie dell’intervista che mi ha concesso e di avermi reso partecipe delle sue imprese, nella sua gloria e nella sua sconfitta! ».
Dissi a gran voce.
Egli mi guardò fisso negli occhi con quell’audacia e determinazione che solo un uomo col suo passato può avere. Poi di colpo scomparve, insieme al suo elefante. Compresi che presto si sarebbe fatta notte. Spensi e ritirai l’invertitore spazio – tempo e frettolosamente m'incamminai verso il colle del Moncenisio dove avevo lasciato l’auto, prima che il buio e il freddo potessero sorprendermi.
Danilo Tacchino
Scrittore, Storico, Filosofo
28 dicembre 2022
«Per Tanith e Melkart messi insieme!».
Sbottò l’uomo, «Dove sono capitato? Ma… mi sembra di riconoscere questo luogo.. Forse».
Io sbiancai per lo stupore, avevo raggiunto il mio scopo e dissi a gran voce: «Ma Lei è ANNIBALE Barca di Cartagine, l’uomo che fece tremare Roma!».
Lo sconosciuto rimase un attimo interdetto, poi disse: «Chi mi appella in modo così entusiasta?».
Mi ricomposi e mi presentai spiegandogli perché si trovava lì, non tanto per lo spazio, nel quale forse vi era già stato secoli addietro, ma per quanto riguardava il tempo.
«Ci troviamo nell’anno domini 2022 o per meglio dire perché lei comprenda, a 2836 anni dalla fondazione di Cartagine e io sono un cronista o, meglio, sempre per farle capire, uno scribano del periodo storico in cui adesso si trova».
Annibale mi guardò prima con fare sospetto e indispettito ma poi disse:
«Da dove vengo, ho imparato che il Tempo non è che un sospiro e i miei dèi un sogno vagante nel nulla, quindi, scribano di un tempo a me sconosciuto, ti do il permesso di porgermi delle domande».
Io non aspettavo altro e cominciai senza por tempo al tempo.
«Generale Annibale, nel nostro periodo storico Lei è conosciuto come una figura universale: il Generale Cartaginese che fece tremare Roma. Il suo odio verso Roma Caput Mundi, però, da dove deriva?».
L’espressione del suo viso prima si fece cupa, poi, aggrottando una ruga, avendo leggermente chiuso l’occhio destro, cominciò a rispondere.
«Il mio odio per Roma si formò sin dalla tenera età, dall’insegnamento di mio padre Amilcare, che mi iniziò nel credere nel popolo di Cartagine, nella sua grande Cultura e forza nella libertà del commercio, la quale stava per essere crudelmente e cruentemente calpestata dalla tirannia di Roma, violenta carnefice di ogni libertà che non fosse la sua. Mi ricordo che all’età di quattro anni vidi mio padre mozzare il naso del console romano Attilio Regolo, perché aveva per ben tre volte ingannato Cartagine contravvenendo agli accordi stipulati con Roma. Il potere supremo non si può condividere, mi fu insegnato, e Roma su questo non intransigeva mai.
«Mi racconta come avvenne il suo giuramento di odio contro Roma?».
«Ricordo quando mio padre mi portò per la prima volta al tempio sacro di Melqart. Non sarei mai più andato in quel boschetto di platani, mandorli, cipressi e mirti, lungo quel sentiero lastricato di ciottoli neri. Nel tempio, davanti al sommo sacerdote Achololim, un eunuco mi coprì con un mantello rosso sangue e altri due portarono un cane nero e mio padre, con un colpo solo della sua spada, lo tagliò in due. Il suo sangue sfrigolò sul fuoco sacro e il gran sacerdote disse: "Possa questo destino ricadere su di te, Annibale, figlio di Amilcare, se infrangerai questo giuramento". Poi, vicino a un trogolo di pietra, furono condotti un torello bianco e una pecora nera, simboli del giorno e della notte, ai quali mio padre tagliò la gola e fece riempire la vasca del loro sangue e nel quale io vi immersi le braccia. Ricordo ancora le parole che il gran sacerdote mi fece pronunciare nel giuramento: "Io, Annibale Barca, figlio di Amilcare, giuro sui serpenti di Melqart, su Eschmoun, sull’oscurità di Panit e pronuncio questa solenne promessa di odiare Roma per sette volte: immortale ostilità a Roma, mai pace con Roma, mai tregua con Roma, mai pietà verso Roma, finché vivrò o finché un solo romano camminerà sulla Terra o navigherà per mare. Su me stesso giuro queste cose".
Si, ereditai quest’odio da mio padre ma l’ho rifinito e affilato, perfezionato e reso mio. È stato l’alambicco della mia anima».
«Come iniziò la sua preparazione per contrastare la potenza romana?».
«Tornando a palazzo mio padre mi disse che Cartagine era finita. Quello che la sua guerra contro i romani aveva iniziato, la sua guerra contro i mercenari traditori aveva portato a termine. Le casse di Cartagine ormai erano vuote e la Sicilia, Malta, la Sardegna, la Corsica, ormai in mano nemica. Inoltre i maledetti romani chiesero la loro Indennità in oro. "Ma ricostruiremo una nuova Cartagine, in Spagna", disse, "e lì ricostituiremo il nostro esercito. Tu ne sarai la guida". Se la guerra senza tregua mi aveva insegnato il combattimento e la strategia militare, i preparativi per la nostra partenza per la Spagna m'insegnarono cose di uguale importanza. Mio padre avrebbe preso dodicimila uomini, tremila cavalli, quaranta elefanti, lo avrebbero accompagnato quarantatré galee rimesse a nuovo, insieme a minatori, tessitori, fabbri, scribi, carpentieri, stallieri, cuochi e schiavi. Io preparai i miei piani insieme a Sileno, il mio erudito tutore e maestro, e così passarono i primi mesi del mio decimo anno di vita. Sottomettere e alleare, anche questo lo imparai in Spagna e da mio padre. La guerra senza tregua mi aveva insegnato come trattare i nemici. In Spagna, però, vidi che un altro sistema per trattare con i nemici è farseli amici. Il viaggio verso la Spagna fu agevole, marciammo per trenta giorni fino a giungere alle colonne d’Ercole, sullo stretto del mar Tirreno. Che uomo fu Ercole! Arrivato come noi al monte Hacho e, visto che era unito a Gibilterra e che gli bloccava il passaggio, nonostante ci fosse il mare da entrambi i lati, aveva abbattuto la montagna ed era giunto in Spagna, navigando nella coppa di Helios, il Dio del Sole, su un mare ardente. Così nacquero le colonne d’Ercole, tra le quali dovevamo passare, e quando le Alpi molti anni dopo ostacolarono il mio cammino ci ripensai: quando una porta sembra chiusa, attraversala senza paura. Anche nel trasporto degli elefanti imparai ciò che feci poi per far attraversare i miei nella campagna verso l’Italia, sull’Ebro e il Rodano. Mio padre fece portare molti tronchi sino al molo e grandi quantità di terra, ammucchiandola sui legname galleggiante sino a che il loro livello fu uguale a quello della banchina, poi costruimmo delle mura di palme e fronde attorno a questa terra galleggiante. Due elefanti furono condotti lungo il molo fino a quella che doveva sembrare loro la terraferma e gli altri li seguirono senza paura. Così io vidi e imparai».
«Suo padre volle andare in Spagna per fondare una nuova Cartagine. A che scopo e come?».
«Andammo a Gadez. Agli occhi di un ragazzo era simile a Cartagine, in una versione più piccola. Aveva l’agorà, templi e naturalmente la sala del consiglio degli anziani della città e un tribunale. I romani ci definivano selvaggi ma diverse centinaia di anni prima che Roma fosse solo un pensiero, Cartagine aveva già una costituzione. I romani regnavano con la paura, sprezzanti delle leggi. Cartagine, è vero, regnò anch’essa grazie alla paura ma era esercitata nei limiti della legge stabilita dalla costituzione. Gadez aveva dunque il suo consiglio e il suo tribunale poiché anche Cartagine era così. A quindici anni uccisi il mio primo uomo, faceva parte di un gruppo di briganti Basetani che saccheggiavano i nostri insediamenti iberici, con un colpo di giavellotto ed ebbi l’impressione di essere stato come un fulmine, del resto il mio cognome non poteva essere più azzeccato. Mio padre mi disse che avremmo presto costruito Carthagena e che dovevo studiare le battaglie di Pirro con l’aiuto di Sileno e così feci. Se è alla mia nascita che devo il mio odio a Roma è a quegli anni in Spagna che maturai la mia abilità di far leva su di esso. Mio padre prese accordi per far sposare mia sorella Sofonisba ad Asdrubale il bello, uno dei più ricchi e potenti commercianti di Cartagine, legato al consiglio degli anziani, e questo lo fece per assicurare, a Carthagena e a me, tutte quelle ricchezze che sarebbero servite per battere Roma. Conquistare le terre spagnole e sottomettere le tribù locali non fu incruento, tanto che nel combattere contro i Vettoniani di Heliche, mio padre, per difendermi, morì tra le mie braccia, per una picca che lo colpì al fianco. Mi diceva sempre: "Aspettati l’imprevisto, Annibale" e questo giunse portandomi via la sua anima. Io, diciottenne, rimasi solo come un bimbo che si sveglia di notte e ha paura. Mi lasciò sotto il Sole cocente e il volo dei nibbi sulle nostre teste. Mi disse: "Roma, Annibale, Roma!". Poi spirò. Io presi il comando di quella nuova forza cartaginese, preparata per cogliere Roma di sorpresa».
«Come si preparò al comando?».
«Carthagena divenne la sede per la preparazione dell’esercito, insieme ai miei fratelli e ai miei fidati amici come Maharbale, principe degli Oretani, che divenne comandante della cavalleria, Hamilax, famiglio di mio padre, e Sileno, il mio tutore greco che m'insegnò tra le righe dell’Odissea e altri testi, il segreto della strategia, come quella di tal Pirro Re dell’Epiro che diede, con i suoi elefanti, filo da torcere ai romani.
Io amai l’esercito che creai, come adorai Similce la mia dolce sposa, figlia di Fuano, capo della tribù spagnola dei Turdetani, che amai immensamente e persi, uccisa nella piana italica. Fu un altro momento che indurì ancor di più il mio cuore contro i romani. A ventun’anni, con l’aiuto di Asdrubale il bello e i miei consiglieri più intimi, preparai l’esercito che doveva conquistare Roma. Una delle prime innovazioni, fu quella di rendere la cavalleria e la fanteria un tutt’uno intercambiabile e di far letteralmente volare i miei soldati, fulminei, letali. Ci volle molto tempo, anche grazie al dono della retorica usato verso i miei soldati, insegnatami da Sileno. L’esempio, poi, nel compattarli nei ranghi e nel motivarli. Cominciai da me stesso, mangiando quel che mangiavano i miei soldati, indossando quel che loro indossavano, combattendo come loro.
Creai un esercito che non fu mai sconfitto perché sin quando non fui copiato da Scipione, ho fatto la cosa migliore».
«Quale fu il suo programma di guerra contro i romani?».
Feci il programma d’attacco. Sagunto, avamposto commerciale romano, doveva essere distrutto. Asdrubale il bello si oppose anche perché sapeva che il consiglio cartaginese col quale era in contatto, non voleva riaprire le ostilità con Roma ma io seppi convincerlo. Marciammo su Sagunto e l’assedio durò diversi mesi ma poi la città cadde. La mia nuova cavalleria era invincibile. Poi Asdrubale il bello venne assassinato in una congiura voluta da Bomilcare, il nuovo sufeta di Cartagine che non voleva iniziare nuove ostilità con Roma, con lo scopo di ridurmi i rifornimenti e bloccare le risorse e i beni che mi servivano per foraggiare l’esercito ma io seguitai nel mio scopo. Scrissi agli anziani dicendo che intendevo dar potere a Cartagine e volevo dimostrare interamente le mie intenzioni con le azioni. Parlai ai miei uomini dicendo: "Non c’è spazio per Roma e per Cartagine. Una deve cadere e insieme, faremo in modo che sia Roma, perché voi siete il più grande esercito che il mondo abbia mai conosciuto. Dopo di che potrete vivere con Cartagine vostra alleata, come vostra amica. Diverrete ricchi e liberi contro la tirannia di Roma. Soldati, preparatevi adesso a marciare!».
«Come iniziò la campagna per invadere la penisola italica?».
«Marciai con l’esercito verso nord, composto dai Frombolieri iberici che erano in avanguardia, seguiti da duecento squadroni di cavalleria pesante, protetti da armatura e poi i miei elefanti. Seguivano dietro a loro, centinaia di carri, carichi di tende, pelli, cibo, armi, scorte e poi per ore sfilava la fanteria divisa in squadre. Molti erano Spagnoli ma c’erano anche Pericani, Paeti, Numidi, Concaniani, Arbaciani, Cerretani, Gallaciani, Autololi.
Il primo mese di viaggio fu pesante, battuto da piogge consistenti. Ero convinto della forza della mia cavalleria, come sapevo che l’esercito romano era composto da uomini che avevano scelto di prestare servizio per difendere le proprie case. I miei uomini però sapevano che servendomi avrebbero migliorato non solo la loro posizione economica ma avrebbero scongiurato il pericolo di vedere distrutta la loro civiltà. I Generali di Roma erano più politici che non soldati e per di più cambiavano ogni anno per paura di creare una dittatura militare. Il mio esercito, invece, combatteva per me come un sol corpo e una sola mente. Giunti in Catalogna, avemmo guai dalla tribù degli Ellergeti, che non amavano Cartagine ma neppure Roma. Erano padroni di loro stessi e io non potevo permettere di lasciarmi un nemico alle spalle. Fu una lezione che mi servì poi per altre tribù come quella dei Taurini appena giunsi in Italia. Dovetti massacrare tutti questi popoli. Gli Ellergeti combatterono sino alla morte o si suicidarono piuttosto che arrendersi. Non potei avere pietà. Lasciai andare però dieci uomini perché raccontassero lo sterminio per mano mia alle altre tribù, in modo da non trovarmene dinnanzi altre, ribelli, quanto piuttosto inclini all’accordo e a seguirmi. Incontrammo molte tribù galliche come i Volci e le sottomettemmo.
Ricognitori romani dell’esercito di Scipione, c'intercettarono e allora dovetti pensare in fretta e con un doppio punto di vista, il mio e quello del nemico. Se fossi stato Scipione, avrei portato la flotta in Italia e avrei aspettato dall’altro lato delle Alpi. Dovetti quindi velocizzare gli spostamenti marciando anche di notte».
«Come avvenne la traversata sulle Alpi?».
La vista delle Alpi demoralizzò gli uomini. Li avevo messi già a dura prova. Intravidi la mia occasione da un altopiano e ordinai un’adunata. Avevo con me anche i Boi, tribù gallica nostra alleata, che aveva stazionamenti di qua e di là delle Alpi e molti loro uomini erano nelle nostre file comandati da Magilo, che conosceva molto bene i passi e i sentieri per valicare le Alpi. Feci salire i capi tribù dei Boi e Magilo sul carro insieme a me, poi dissi: "Soldati di Cartagine, siamo sotto le Alpi e so che molti di voi hanno paura a valicarle. Guardate questi uomini al mio fianco, parlate voi con loro, sono i discendenti di quei Galli che tante volte hanno attraversato e riattraversato le Alpi che voi temete. Vi diranno, come hanno fatto con me, di come due secoli fa Belloveso guidò la sua tribù degli Insubri sulle Alpi e fondò a valle una grande città, Mediolanum, dall’altra parte. Gli stessi Boi, i Lingoni, i Senoni, tutti loro sono venuti giù dall’altro lato e hanno condotto la loro armata, più grande della nostra, attraverso queste montagne che temete così tanto". Continuai, "Sinora non siamo stati sempre vittoriosi? Il bottino che avete ottenuto a Sagunto sarà cento volte più grande quando conquisteremo la penisola italica. Abbiamo attraversato l’Ebro, i Pirenei, il Rodano. Non dovreste avere paura. Così convinsi i miei uomini a continuare. Avevo cinquantottomila fanti, ne avrei reclutati altri tra i Galli. Guidati da Magilo, iniziammo ad arrampicarci lungo sentieri di pietrisco ghiacciato e proseguimmo in una stretta gola. Improvvisamente enormi pietre caddero sulla colonna del mio esercito. "Sono gli Allobrogi", mi disse Magilo, "tribù galliche dei monti, anch’esse senza legami se non con sé stesse". Dovetti occuparmi anche di loro, perdendo molti uomini, carri, vettovaglie. Trovammo pure una enorme roccia che bloccava il passo agli elefanti e le masserizie non passavano. Dovetti bruciarla con fascine e aceto per rendere la roccia friabile e poterla spaccare a colpi d’ascia e martello. La neve continuava a cadere, il tempo passava e la fame degli animali e degli uomini aumentava ma riuscii anche in questa impresa. Quando una strada è chiusa, passaci attraverso e non aver paura, il modo lo trovi sempre.
Con fatica, allo stremo delle forze, discendemmo il passo… forse quello dove mi trovo ora?».
«È sicuro che questo sia il Passo che Lei valicò?».
«Non riesco a esserne sicuro, è passato troppo tempo e la vostra geografia è cambiata ma non credo sia importante».
«Cosa successe quando con l’esercito raggiunse la pianura padana?».
Giunti a valle, ordinai l’adunata. Mi erano rimaste soltanto ventimila unità di fanteria, seimila di Cavalleria e i trentasette elefanti, tutti esausti e deboli. I muli che trasportavano l’oro erano andati perduti, caduti nei burroni, coperti dalla neve, o rubati dai disertori. Ogni mattina scoprivo che sempre più uomini erano scappati durante la notte. Eravamo deboli e congelati, affamati e peggio ancora, scoraggiati ma non mi persi d’animo. Le battaglie si vincono soprattutto con la volontà! Riorganizzai l’accampamento con tenacia, e rinquadrai gli uomini. Giungemmo dinnanzi al villaggio della tribù dei Taurini all’inizio della pianura…».
Lo interruppi.
«Io vengo da lì».
«Ah, sì? Sei un Taurino?». Disse Annibale.
«Vivo nella nuova città del ventunesimo secolo sorta nel territorio di quella antica tribù ma è tutta un’altra cosa».
«Ne convengo». Rispose.
«Sapendo che, giunto in pianura, trovò il territorio della tribù dei Taurini che le erano ostili, come si comportò?».
Dall’esperienza fatta con gli Ellergeti, dovetti massacrare il popolo e bruciare la città, sempre per il timore di non ritrovarmi alle spalle un popolo ostile. Non potevo permettermi di rischiare.
Con i Taurini, però, usai un ulteriore stratagemma, ai prigionieri diedi due possibilità: o morire o combattere per me, con la promessa di essere liberati e ricompensati con sonanti monete d’oro. Li utilizzai poi nelle prime linee della battaglia del Ticino, il primo scontro diretto con i romani, mandandoli a falcidiare con le loro spade le gambe dei fanti romani in prima linea».
«Come si preparò e rinforzò l’esercito, sapendo che i romani l'aspettavano oltre la pianura?».
«Dovevo avere altri uomini, come i Liguri e i Celti, questi erano i soldati di cui avevo bisogno, erano i tradizionali mercenari di Cartagine. Non i Galli, uomini traditori e poco consoni agli ordini in battaglia. Per trovarli, dovevo spingermi verso sud est e tra me e quelle regioni c’erano i romani, forse il doppio o il triplo di noi ma dovevo cominciare ad affrontarli. Con la mia cavalleria pesante potevo farcela e ce la feci sul Ticino, sebbene persi tutti i miei trentasette elefanti, ormai stremati. Feci volare i miei Soldati e tenni la cavalleria numida indietro per l’ultima offensiva. Fu solo una schermaglia ma ne venni a capo. Si riuscì anche a ferire gravemente il console Scipione, sebbene fu difeso dal figlio che poi incontrai di nuovo anni dopo a Zama e riuscì a sconfiggermi.
Mi spostai poi sul fiume Trebbia, vicino al Castro di Piacenza, primo avamposto romano nella pianura, e sconfissi lì le legioni di Sempronio e proseguii. Per via dei miasmi e delle mosche che trovammo nelle paludi che dovemmo attraversare, persi il mio occhio sinistro ma non me ne curai più di tanto, ero troppo preso a realizzare il mio piano di conquista. Proseguii senza esitare, giungendo sino al lago Trasimeno in barba alle legioni di Flaminio che comunque mi seguì a sud».
«Giunto con l’esercito nel cuore della penisola italica, in pieno territorio nemico, come si comportò e cosa avvenne?».
«Diedi ai romani sul Trasimeno una delle loro prime sconfitte più brucianti e collaudai nel mio esercito la capacità di recepire fulmineamente i segnali d’attacco attraverso i lampi degli specchi in bronzo, che furono determinanti per raggiungere il risultato finale della battaglia. Uccidemmo più di quindicimila romani quel giorno e un Gallo insubre di nome Ducario, mio alleato, mi portò la testa del Console Flaminio. Non facemmo prigionieri sul lago Trasimeno. Poi non marciai direttamente su Roma perché la città poteva ricevere rifornimenti direttamente da Ostia e io non possedevo una flotta e non avevo la sicurezza di un appoggio da parte delle città italiche a cui potevo chiedere un aiuto. Per ciò decisi di non assediare Roma per il momento, anche se Maharbale e i miei fidati comandanti non erano d’accordo su questa mia decisione. Marciammo quindi verso Canne, perché avevo bisogno di cibo per rinfrancare i miei uomini, sebbene le Legioni di Massimo il temporeggiatore, chiamato così perché non mi attaccava mai, e quelle di Marco Minucio Rufo, mi stavano sempre appresso».
«La battaglia di Canne è ritenuta il suo più grande capolavoro. Ce la racconta?».
«Canne era un importante magazzino romano e lì ebbi il mio più grande successo. Saziai i miei uomini, mentre ero stato informato che le Legioni di Varrone e di Emilio, che avevano sostituito in comando Fabio Massimo e Marco Minucio Rufo, si stavano avvicinando a gran velocità. Quando giunsero, le circondai effettuando una manovra a tenaglia che non si aspettavano e sui campi di Canne morirono migliaia di romani. Quando il Sole tramontò, tutt’intorno a me c’erano mucchi di cadaveri dei romani morti.
L’Italia, era mia».
«Dopo Canne, però, iniziò il suo indugio e il declino della sua campagna di guerra. Perché? Cosa successe?».
Forse fu la stanchezza, forse un uomo non dovrebbe mai conoscere un potere così grande come ebbi io dopo Canne. Forse furono le tenebre in cui avevo vissuto così a lungo, creandomi le ferite che mi ero prodotto combattendo. Il dolore non era quello del mio corpo ma della mia mente. Persi la capacità di cambiare, l’innocenza e l’umiltà di poter cambiare. Trentacinque anni erano passati dall’inizio della mia guerra contro Roma e non potevo più permettermi di essere semplicemente un uomo. Le aquile non generano colombe e io non potevo permettermi di mollare. Cartagine non mi aiutò più di tanto e i miei fratelli Asdrubale e Magone, che tentarono di darmi man forte cercando di portare i loro eserciti e la loro flotta nella penisola fallirono miseramente. Io ero confinato in Campania e nel Bruzio, marcato a vista dalle Legioni romane. I romani gettarono nel mio accampamento la testa di mio fratello Asdrubale ucciso nella battaglia del Metauro. La mia rabbia e la mia delusione furono indicibili.
Cartagine fu poi assediata dalle Legioni di Scipione l’africano e mi fu richiesto da parte del consiglio degli anziani di tornare in Africa per difendere la Città.
Tornai per affrontare Scipione a Zama.
Lo incontrai prima della battaglia, e gli dissi che due potenze come Roma e Cartagine non dovrebbero avere appetiti e possedimenti al di fuori dei propri territori e i rispettivi comandanti non dovevano lasciarsi entusiasmare dal desiderio di volere cose altrui come fanno i fanciulli. Se avesse vinto lui, non avrebbe poi acquisito molto di più di quel che Roma già aveva ma se avesse perso, avrebbe vanificato ogni cosa. D’altronde la fortuna è una delle cose più labili del mondo. Gli proposi la pace offrendogli di lasciargli tutti i territori da loro conquistati, la Sicilia, la Sardegna e la Spagna, mentre Cartagine si impegnava a non fare più alcuna guerra contro Roma ma egli mi disse che erano stati i Cartaginesi ad aprire le ostilità contro i romani e che Roma aveva conquistato i loro territori soltanto per difendersi e tutelarsi da ulteriori attacchi. E poi disse anche che i Cartaginesi erano perfidi e traditori contro ogni accordo che Roma aveva concesso loro e quindi che Cartagine doveva sottomettersi in maniera incondizionata. Mi resi conto che l’unica alternativa era quella di combattere.
Persi. Scipione aveva imparato le mie tattiche e le utilizzò in battaglia.
Scappai in Bitinia, sotto il Regno di Prusia, ma avendo scoperto che i romani stavano facendo pesanti pressioni per convincere Prusia a consegnarmi a loro, decisi di togliermi la vita. Ero ormai vecchio e stanco, e MAI avrei sopportato di dare ai romani la soddisfazione di essere loro prigioniero.
La luce stava scemando ormai sul Colle e i primi fiocchi di neve stavano cominciando a cadere. D’improvviso l’immagine di Annibale cominciò a divenire diafana, sebbene ancora ben visibile sul suo elefante. L’invertitore di spazio – tempo cominciava a surriscaldarsi e a fischiare. Compresi che presto Annibale sarebbe scomparso dalla mia vista.
«Addio Generale! Grazie dell’intervista che mi ha concesso e di avermi reso partecipe delle sue imprese, nella sua gloria e nella sua sconfitta! ».
Dissi a gran voce.
Egli mi guardò fisso negli occhi con quell’audacia e determinazione che solo un uomo col suo passato può avere. Poi di colpo scomparve, insieme al suo elefante. Compresi che presto si sarebbe fatta notte. Spensi e ritirai l’invertitore spazio – tempo e frettolosamente m'incamminai verso il colle del Moncenisio dove avevo lasciato l’auto, prima che il buio e il freddo potessero sorprendermi.
Danilo Tacchino
Scrittore, Storico, Filosofo
28 dicembre 2022